Questo romanzo del cosiddetto “primo periodo” queeniano è citato anche da Jorge Luis Borges nel racconto Esame dell’opera di Herbert Quain. Ci ho messo un po’ di tempo a leggere in inglese le trecento e passa pagine di questo classico, ma ne è valsa la pena. Il volume in mio possesso è un Otto Penzler la cui copertina riproduce quella della prima edizione pubblicata da Stokes. Immancabile, sullo sfondo della copertina, la Donna di Quadri, sempre presente nei primi nove romanzi (l’unica eccezione è il nono ed ultimo, The Spanish Cape Mystery) i cui titoli ricalcano la formuletta sintattica che conoscete tutti.L’espressione della Donna di Quadri, lo si percepisce, è tutt’altro che benevola e strizza un po’ l’occhio alla Regina Rossa di Lewis Carroll, e la cosa non mi stupisce, dato che Alice in Wonderland viene citato nella storia e che Dannay e Lee erano ammiratori dichiarati di Carroll – e basta leggersi The Mad Tea Party per rendersi conto che non potrebbe esserci tributo più ben riuscito. In quest’avventura, però, le carte da gioco – due figure, in particolare – rivestono un’importanza investigativa primaria e simbolica, essendo non solo indizi ma anche strumenti che l’assassino – e dico assassino all’inglese, senza distinzione di genere – manipola per creare piste, false piste e contropiste che faranno scervellare non poco Ellery. 
tstmVenendo alla storia, la prima cosa che colpisce è il contesto, l’atmosfera: una villa in cima a una montagna scoscesa circondata da una foresta in fiamme nell’immaginaria (nel nome, perlomeno, alla Wrightsville) contea di Osquewa. L’incendio avanza sempre di più e minaccia le vite degli occupanti della casa, tra i quali ci sono Ellery e un nervoso ispettore Richard Queen dal grilletto facile. Nessuno di loro può andarsene di lì, un po’ come accade nella Nigger Island dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, con l’unica differenza che qui non basta aspettare che la tempesta si calmi. Tra di essi c’è un assassino che colpisce per ben due volte. Ellery è determinato a smascherarlo, e per farlo deve lottare anche contro il caldo insopportabile e la paura del fuoco che avanza inesorabile: l’indagine diventa l’arma razionale con cui Ellery tiene a bada l’irrazionalità della paura.
È un Ellery molto più emotivo di quello che indaga in The Roman Hat Mystery o The Greek Coffin Mystery, e anche molto meno distaccato ed altezzoso: in una circostanza, arriva persino a piangere. Lui e il padre si trovano in una specie di Inferno dal cielo grigio e fumoso (e la parola “hell”, non a caso, ricorre molte volte nel romanzo) dal quale non sanno come fare a uscire. Ci vorrebbe un “miracolo”. Arriverà? 
La storia si snoda su un doppio climax: l’incendio e l’indagine avanzano di pari passo, arrivando a congiungersi in un finale altamente drammatico, che ovviamente non svelo. Al di là dei meccanismi polizieschi, perfettamente oliati, la vicenda fa anche riflettere, a suo modo: Marie Carreau ha partorito due gemelli siamesi, Francis e Julian, ed è stata costretta a nasconderli al mondo dalla sua famiglia altolacata, che li considerava una creatura deforme (lo stesso Richard Queen, del resto, intravenendoli nella penombra li scambia per un granchio gigante); per dirla con le parole di Ellery: “la solita miopia delle grandi famiglie”. John Xavier, “il cui Dio è la Scienza”, medico chirurgo di chiara fama specializzato appunto in gemelli siamesi, ossessionato dalla possibilità di separazione chirurgica al punto tale da tenere coppie di gemelli siamesi di vari animaletti nel suo laboratorio per esperimenti di vivisezione, è il personaggio che incarna la riflessione sui limiti della scienza, sul fin dove possa e voglia spingersi.
Per concludere, una breve e vaga considerazione sulla soluzione, onde evitare spoiler. Potrei dire che Queen non sfida solo il lettore, come al solito, ma anche Lapalisse; a buon intenditor… se è vero che nella gran parte dei gialli whodunnit il colpevole, alla fine, è colui o colei di cui non si sospettava, è altrettanto verosimile che il colpevole, alle volte, finisca per essere insospettabile perché troppo sospettabile o sospettato… E qui mi fermo.
(Luca Sartori)

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