John Dickson Carr – Destare i morti (To Wake the Dead, 1937)

Come scritto qualche giorno fa, ho da poco ascoltato una commedia radiofonica tratta da questo romanzo di Carr, trasmessa dalla BBC nel 1997. Mi sembra una buona occasione per parlare di questo romanzo (di cui si era accennato sul gruppo un paio d’anni fa), in genere un po’ snobbato sia dalla critica sia dagli appassionati, pur rientrando in uno dei periodi più fertili e felici della carriera di Carr; anzi, forse proprio per questo. In effetti è difficile che un libro, seppure buono, spicchi particolarmente quando si trova incastrato, nella sequenza di pubblicazione delle avventure del dottor Fell, tra due capolavori assoluti come Delitti da mille e una notte e L’automa, mentre nello stesso anno viene dato alle stampe un classico di Sir Henry Merrivale quale Il mistero delle penne di pavone e quel piccolo gioiellino che è Il terzo proiettile.

La trama prende spunto da una di quelle situazioni bizzarre che tanto piacevano a Carr; una scommessa tra due amici in base alla quale uno dovrà viaggiare dal Sud Africa all’Inghilterra pagandosi il viaggio in qualsiasi modo ma senza fare ricorso alle proprie floride risorse economiche. Christopher Kent, erede del patrimonio Kent e scrittore di gialli dilettante, accetta la sfida e ci riesce; arriva a Londra con un giorno di anticipo sulla data fissata per incontrarsi con i suoi amici (che hanno viaggiato lussuosamente in piroscafo). Il problema è che è rimasto senza un soldo e la prospettiva di passare 24 ore a digiuno non gli piace per nulla, ma il caso sembra offrire una soluzione al suo dilemma. Da una finestra dell’albergo dove l’indomani alloggerà la comitiva dei suoi amici cade un cartoncino di prenotazione di una stanza, la 707, che ne riporta il prezzo e le magiche parole “colazione inclusa”. È mattina presto, l’occupante della stanza probabilmente dorme ancora: Kent decide di tentare di scroccare una colazione. Il giochetto riesce, ma lo fa piombare in un pericoloso equivoco. Il portiere, credendolo l’occupante della stanza 707, gli chiede di entrare in camera per recuperare un prezioso braccialetto dimenticato da una precedente cliente. Kent non può fare altro che stare al gioco, ma quando viene fatto entrare nella stanza ci trova il cadavere di una donna. In maniera rocambolesca riesce a svignarsela e a recarsi dall’unico uomo in Inghilterra che possa aiutarlo; il dottor Gideon Fell.

La commedia degli equivoci che occupa i primi capitoli cede poi il passo a una rigorosa indagine con la comparsa sulla scena di Fell e del sovrintendente Hadley, che qui, quasi per l’ultima volta nei romanzi di Carr, lavorano insieme dall’inizio alla fine (sarà proprio a partire dal romanzo seguente che Hadley inizierà a occupare un ruolo sempre minore, con occasionali ritorni sulla scena). Le ambientazioni sono entrambe affascinanti; un lussuoso hotel nel cuore di Londra, un villaggio del Sussex con una dimora di campagna che confina con un cimitero. La figura dell’assassino è fantomatica quanto basta per dare il giusto brivido in stile Carr (anche se qui mancano gli elementi più sovrannaturali presenti in altri romanzi); un inserviente d’albergo senza volto, vestito con una divisa blu con i bottoni d’argento, che nel primo delitto si aggira nel cuore della notte nella suddetta dimora di campagna, mentre nel secondo si muove sotto le luci elettriche dell’hotel, visto ma non riconosciuto da nessuno. Le false piste abbondano e non manca nemmeno qualche tocco dello humour inglese caro a Carr, anche se qui Fell è molto contenuto e l’elemento farsesco è ridotto al minimo. Non manca nemmeno una delle classiche conferenze del dottore, che qui si esprime sulle meccaniche e l’estetica del romanzo poliziesco e sopratutto su uno dei temi preferiti dall’autore americano, ossia la bizzarria e l’improbabilità delle sue trame.

Le critiche al romanzo vertono principalmente sulla trama “gialla” e si concentrano principalmente su due punti; ne parlo in un apposito commento per evitare spoiler. Personalmente devo dire che a me questo libro piace. I punti deboli della trama ci sono e non vanno negati; ma un altro romanzo da tutti (e detto per inciso anche da me) considerato un capolavoro, L’automa, ne ha di ben maggiori. Credo che i critici siano stati ingiusti e che il suo status di libro “minore” tra le opere di Carr sia un po’ immeritato. Non siamo ai livelli del Cappellaio Matto, delle Tre Bare o dei Delitti da Mille e Una Notte, ma questo libro merita di essere letto e apprezzato, non fosse altro che per alcune scene memorabili, come lo spettacolare interrogatorio di Hadley a Sir Gyles, la magnifica “soluzione come sarebbe stata trovata in un romanzo giallo” di Fell e Chris Kent, la cattura dell’assassino nel cimitero e l’ultima volta che avremo occasione di visitare la biblioteca del dottor Fell al numero 1 di Adelphi Terrace prima che lo storico edificio (che comprendeva tra l’altro il Savage Club di cui Carr era socio) venisse demolito in una frenesia di speculazione edilizia alla fine del 1936.

Una parola sulla suddetta commedia radiofonica della BBC: ho trovato l’adattamento molto buono, fedele all’originale tranne che per alcune modifiche rese necessarie probabilmente dall’esigenza di limitare il numero degli attori e con discreta resa dell’atmosfera e dei dialoghi, tranne che per la scena finale della cattura, dove il mezzo radiofonico non riesce a trasmettere la giusta dose di adrenalina della concitata azione del romanzo.

In definitiva, quello che per Carr è “solo” un ottimo romanzo, ma che per molti autori sarebbe probabilmente, senza infamia, il picco di una carriera.
(J.S.Moran)

Joël Dicker – The Truth About the Harry Quebert Affair (La Vérité sur l’Affaire Harry Quebert, 2012)

Questo tomo di 600 pagine che ho letto tradotto in inglese ha certamente dei pregi letterari, ma ha anche dei difetti, ed è proprio da quelli che voglio cominciare: il libro è ben costruito, ma a mio modo di vedere è eccessivamente lungo. Tutta la vicenda avrebbe potuto tranquillamente stare in 400 pagine. La storia d’amore in risalto nella prima parte del romanzo è a volte prolissa, magari un po’ melensa, e, sebbene non venga mai citato in maniera esplicita, ruba a mani basse da Vladimir Nabokov: lo scrittore adulto Harry Quebert è un Humbert Humbert, e la quindicenne Nola Kellergan è una Lolita.

Detto questo, la narrazione è del tipo diacronico, un andirivieni tra 1975 e 2008 con i capitoli in modalità “countdown” da 31 a 1. La numerazione a rovescio dovrebbe simboleggiare la teoria che ha origine in The Philosophy of Composition di Poe e secondo cui un racconto del mistero e del raziocinio si scrive per l’appunto alla rovescia, partendo dal dénouement finale, il quale determina la struttura di tutto ciò che lo precede. Per quanto riguarda i pregi, ciò che mi è piaciuto di più è l’idea metaletteraria di fondo attorno alla quale ruota la storia: il giovane scrittore Marcus Goldman del 2008 indaga su un “cold case” risalente al 1975 perché vuole scagionare a tutti i costi il suo mentore e maestro Harry Quebert, anch’egli scrittore di un certo successo come Goldman. Quebert viene accusato di aver ucciso Nola Kellergan dopo che i resti della ragazza sono stati rinvenuti seppelliti nel suo giardino. Il meccanismo metaletterario, una specie di “mise an abyme” molto ambiziosa, è questo: il titolo del libro scritto da Dicker, “The Truth About the Harry Quebert Affair”, è lo stesso del libro che Marcus Goldman scrive nel romanzo; insomma, abbiamo due libri identici e dallo stesso titolo: uno contiene l’altro; uno è già finito ed esiste davvero, l’altro è in fieri ed è nella finzione. Un effetto Droste prestato alla letteratura.

Inoltre, dal momento che anche io scrivo e in passato ho praticato boxe, mi ha molto affascinato il parallelismo tra boxe e scrittura.

Un altro aspetto interessante è che Marcus Goldman è in crisi creativa. Ha il cosiddetto blocco dello scrittore e viene pressato dal suo agente letterario affinché sforni un secondo romanzo dopo il successo dell’opera prima entro una scadenza, pena la perdita di un bel po’ di soldi. Qui affiora una non molto velata critica al sistema editoriale nordamericano che basa tutto sulle vendite di mercato a discapito della qualità letteraria e vede lo scrittore come una macchina umana per fare soldi: cifre a sei zeri che nemmeno il più quotato tra gli autori italiani si potrebbe sognare, ghost writers trattati alla stregua di schiavi, best-sellers pianificati a tavolino. Goldman è praticamente costretto ad accettare la proposta del suo agente letterario: scrivere un libro che parla di Harry Quebert basandosi sull’indagine che sta conducendo su di lui. Un romanzo sensazionalistico “tratto da una storia vera” che venderà milioni di copie e farà guadagnare soldi a palate all’autore, all’editore e all’agente letterario.

Harry Quebert, da divo letterario acclamato qual era, è diventato un pervertito reietto nel giro di ventiquattr’ore. Assassino e pedofilo. Le sue opere che prima venivano osannate ora vengono ritirate dalle librerie. Anche qui si nota un’accusa attualissima a uno star-system ipocrita che valuta tutto e tutti sulla base delle apparenze esteriori. Se ci si pensa bene, quello che accade a Harry Quebert nel romanzo di Dicker è esattamente ciò che è accaduto a Kevin Spacey nella realtà.

Da cultore/studioso Queeniano, non ho potuto fare a meno di evidenziare alcune analogie filologiche con Ellery Queen (secondo me del tutto casuali):

1) Il newyorchese Goldman va a indagare a Somerset, cittadina immaginaria e provinciale del New England come lo è Wrightsville, in cui l’arrivo dello scrittore celebre è un evento. Diciamo che l’autore più che a Wrightsville si è ispirato a Twin Peaks. Nola Kellergan, oltre a essere un po’ Lolita, è anche un po’ Laura Palmer.
2) Sia Ellery Queen che Marcus Goldman sono scrittori che indagano.
3) Sia Ellery Queen che Marcus Goldman scrivono un libro basato sull’indagine che stanno conducendo.
4) Il romanzo che ha portato al successo Harry Quebert s’intitola “The Origin of Evil” (L’origine del Male), esattamente come un romanzo di Ellery Queen.

Il finale si riallaccia all’incipit in una struttura narrativa circolare ed è la parte migliore del libro che riserva diverse sorprese. Al di là del whodunnit classico – l’assassino di Nola non è Harry Quebert ma qualcun altro – c’è anche un altro whodunnit: Harry Quebert è stato accusato di un crimine che non ha commesso, ma ha commesso un crimine che non è un omicidio, il crimine più infamante che uno scrittore possa commettere e di cui nessuno ha mai sospettato. La sua punizione, che ovviamente non svelo, consiste in un contrappasso letterario in cui l’allievo supera il maestro, nel bene ma soprattutto nel male.

Questo romanzo, come si può anche evincere dalla copertina in foto, è stato definito un capolavoro e “libro dell’anno”. Ora, non nego che sia un buon libro, ma capolavoro e libro dell’anno mi sembrano definizioni un tantino esagerate. In ogni caso, prima di gridare al capolavoro, bisognerebbe sempre contare almeno fino a 100.
(Luca Sartori)

Agatha Christie – Istantanea di un delitto (4.50 From Paddington, 1957)

Torno a Miss Marple a decenni di distanza, dopo delusioni giovanili che mi avevano allontanato dal personaggio.

L’inizio è molto intrigante, la signora Elspeth McGillicuddy torna in treno da Londra a St. Mary Mead dopo aver fatto shopping natalizio e assiste, in un tratto dove due treni procedono affiancati, allo strangolamento di una donna nel treno che corre sul binario adiacente. Racconta ciò che vede prima alle Ferrovie e poi alla polizia, e si consulta anche con l’amica Jane Marple. Non venendo trovati riscontri (nessun cadavere, nessun ferito a seguito di tentato strangolamento, nessuna donna sparita con le caratteristiche viste da Elspeth) il caso sembra cadere, ma Miss Marple, conoscendo la natura molto concreta e poco fantasiosa dell’amica, sa che è successo davvero e che, per far procedere le indagini, occorre trovare il cadavere. A questo scopo, dati l’età e gli acciacchi, ingaggia una giovane amica, Lucy Eyelesbarrow…

Più avanti faremo la conoscenza di una curiosa famiglia, discendenti di Josiah Crackenthorpe, un ricco industriale degli snack alimentari, che vive in una tenuta di campagna letteralmente circondata da insediamenti urbani, in una posizione che ne renderebbe molto redditizia la vendita. Ma la situazione patrimoniale della famiglia è legata a una bizzarra clausola dell’eredità di Josiah. Si torna quindi al tema molto caro al genere della famiglia decaduta, con mille motivi di astio reciproco, ed iniziano le prime supposizioni sull’identità della vittima. La trama poi vede un crescendo di tensione, con nuovi e parzialmente inattesi sviluppi, fino allo show down finale nel quale torna protagonista Elspeth.

Non eccezionale riguardo specie all’identità e al movente dell’assassino (mi ero immaginato una diversa e secondo me più intrigante soluzione, fra l’altro suffragata da indizi) si presenta tuttavia come molto gradevole, specie nella parte iniziale, devo dire molto originale (al di là dell’istintiva antipatia che ho provato per Lucy, e per alcune gag poco riuscite, tipo la battuta ormai abusata sullo scozzese avaro che si protrae un po’ troppo). Bello poi il finale, con il disvelamento a poche pagine dalla fine e poche spiegazioni, come piace a me, anche se dal punto di vista della lealtà non c’erano indizi che potessero aiutare il lettore, lasciando così la soluzione all’intuito (neanche al ragionamento, proprio all’intuito) di miss Marple.
(Alberto Avanzi)

Giorgio Scerbanenco – Le principesse di Acapulco, 1970

Come già suggerisce il titolo, questo breve e agilissimo giallo-noir di Scerbanenco (un centinaio di pagine) con retrogusto politico alla Guerra Fredda (personaggi russi e tedeschi negativi) che si legge in un pomeriggio – io l’ho letto dalle 2 alle 5, per la precisione – è ambientato ad Acapulco, Messico, verso la fine degli anni ’60, e ruota attorno a tre principesse russe dal cognome ucraino (Rudescenko) discendenti di una famiglia aristocratica imparentata con i Romanov fuggita in Messico all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre bolscevica. Le tre principesse sono: Sofia, la vecchia matriarca di settantasette anni; Nicoletta, la figlia cinquantenne; Alessandra (chiamata anche “la moritura” perché sarà lei la vittima), la nipote ventenne.

Il contesto in cui si svolge la vicenda è esotico: jet-set internazionale (Acapulco andava molto di moda tra i ricchi, nordamericani in particolare, negli anni ’60 nonostante fosse piagata da tassi di criminalità elevatissimi e narcotraffico) dove si ritrova gente proveniente da mezzo mondo, in particolare esuli nobili russi che vogliono evitare la confisca dei patrimoni ed esuli ex gerarchi nazisti che vogliono evitare di finire sotto processo. Tanti soldi, milioni, miliardi, lusso e gioielli luccicanti, ma anche tresche, ricatti, affari poco puliti, tanta sporcizia morale, giornalisti scandalistici, pettegolezzi e ipocrisia come se piovesse. Ed è proprio nella sontuosa villa delle principesse Rudescenko che si affaccia sulla celebre “Quebrada”, la scogliera alta 40 metri dalla quale si tuffano gli arditi “clavadistas”, una residenza sorvegliata da “pistoleros” (guardie private armate, per lo più “chicanos”) dove la polizia (corrotta) non mette mai piede, che si consuma il dramma.

Dal momento che l’autore, con un certo spirito da giallo classico accompagnato da un tocco di originalità, ha voluto interrompere la storia e rivolgersi direttamente al lettore (un po’ alla maniera di Ellery Queen primo periodo) per lanciarli garbatamente un guanto di sfida, lascio sintetizzare a lui la vicenda riportando parte della sua “Piccola guida per scoprire l’assassino” in cui si riepilogano i fatti inerenti alla vittima e ai sospettati (tutti dell’entourage o codazzo di famiglia):

“La situazione, fin dal primo capitolo, è la seguente: nel giardino di una grande villa ad Acapulco vi sono undici persone. Una viene uccisa e le altre dieci dichiarano che si è trattato di un incidente. La persona uccisa è: la principessa Alessandra Rudescenko. […] (nome, cognome e ragione sociale dei presenti tra i quali spicca il compagno Vladimiro Costantinovic Oblòmovic, avvocato ed eminenza grigia delle tre principesse soprannominato Rasputin):
“La principessa Nicoletta Rudescenko dichiara che nel tentativo di strappare una rivoltella dalle mani di sua figlia che voleva giocare con la pericolosa arma, ha lasciato partire due colpi involontariamente e questi due colpi hanno ucciso sua figlia.
Le altre dieci persone dichiarano che è esattamente così, come la principessa Nicoletta afferma, cioè che si tratta di un incidente, ma, sin dal principio, è detto che non si tratta di un incidente, ma di un delitto. Cioè, la principessa Alessandra è stata volontariamente uccisa e non vittima di un incidente. Quindi si tratta di un delitto, non di una disgrazia.
Stabilito questo il lettore-investigatore può facilmente dedurre che:
1) la principessa Nicoletta non dice la verità;
2) che tutti gli altri, per qualche misteriosa ragione, affermano il falso come lei, e cioè che si tratta di una disgrazia e non di un delitto.
Allora il lettore-investigatore deve domandarsi: qual è la verità? Chi ha sparato veramente e volontariamente alla principessa Alessandra?
Vi sono già gli elementi per formulare varie ipotesi:
1) può aver sparato volontariamente la stessa Nicoletta, gelosa che il marito (Domingo Urrales) fosse innamorato della principessa Alessandra;
2) il colpevole può essere Heinrich Bergen, marito di Alessandra, che è innamorato di un’altra donna, Virginia Meredith;
3) può essere stata la stessa Virginia Meredith per rimanere sola con Heinrich, di cui è innamorata;sce
4) può e deve essere stato uno dei dieci presenti al fatto, ma chiunque sia stato vi deve essere una ragione per cui poi tutti gli altri testimonino che si tratta di un incidente e non di un delitto. Questa è la molla segreta di tutta la vicenda e alla perspicacia induttiva del lettore-investigatore è affidato il compito di scoprirla.”

Nel romanzo, il compito di scoprire la “molla segreta” è affidato un investigatore dilettante, Ariberto Sartoris, umile impiegato dell’ambasciata italiana a Città del Messico che conosceva la vittima dalla quale aveva ricevuto delle disperate confidenze un anno prima. Sartoris è convinto che Alessandra è stata uccisa e vuole che giustizia sia fatta. Per questo sacrifica tutto il suo misero stipendio per andare ad Acapulco a pestare i piedi (e magari anche a pestare e farsi pestare) affinché la polizia esca dal letargo indotto dalle bustarelle e indaghi sul serio. Sartoris troverà un alleato nel capitano Mastroni, oriundo italiano nonché unico poliziotto non corrotto inviato con urgenza ad Acapulco dal Ministro degli Interni.

Avendo già letto il romanzo e sapendo chi è l’assassino, a posteriori devo ammettere che in effetti gli indizi per arrivare a scoprirne l’identità ci sono. Si può concludere dicendo che, in questo caso messicano, la verità è letteralmente “sepolta”…
(Luca Sartori)

Carter Dickson – Il mistero dello scheletro (The Skeleton in the Clock, 1948)

Questo classico Carter Dickson è un romanzo che avevo già letto svariati anni fa, quando uscì nei Classici del Giallo. Avendo una copia della prima edizione americana (1948) comprata a New York un paio d’anni fa, ho sfruttato l’inizio delle ferie per leggere finalmente l’originale in inglese.

Il romanzo mi era piaciuto e la lettura dell’originale conferma la prima impressione. Intanto va detto che facendo il paragone con il testo originale la traduzione italiana disponibile è buona, non ci sono quei tagli che a volte hanno massacrato le opere di Carr e altri autori. Solo qualche osservazione sparsa, legata troppo alla situazione politica dell’epoca (i commenti acidi di Carr sul socialismo e sui politici laburisti del governo di quegli anni) è stata tagliata, dato che avrebbe poco significato per il lettore italiano moderno.skeleton
Il libro nel complesso, pur non rientrando tra i capolavori di Carr, è ottimo; a iniziare dalle atmosfere, nelle quali l’autore ci fa immergere nell’ambiente sonnolento della campagna inglese nei rari giorni caldi d’estate, tra pub d’epoca, dimore gentilizie e campi verdi (e anche un sinistro penitenziario abbandonato), ricordando molto in questo senso le atmosfere di quel capolavoro che è L’automa e riportandoci a quel sapore d’anteguerra che Carr in genere non trovava più nell’Inghilterra post-bellica, preferendo ricorrere all’espediente di ambientare i suoi romanzi in anni precedenti (vedi Un colpo di fucile, La vedova beffarda, ecc.)
La trama, pur non toccando i livelli di complessità delle sue opere maggiori, è sufficientemente intrigante. Si mescolano due piani distinti: un “cold case”, una morte apparentemente accidentale di vent’anni prima, ma che Sir Henry Merrivale, qui in grandissima forma, ritiene trattarsi di un omicidio; e un delitto avvenuto nel corso di una veglia notturna nel suddetto penitenziario abbandonato, dove due persone per sfida vogliono trascorrere la notte nella cella dei condannati a morte e nella stanza delle impiccagioni, per vedere quali influssi malefici permangano nel vecchio edificio.
Alcuni detrattori lamentano il fatto che il secondo delitto non abbia un movente chiarissimo (Sir Henry del resto afferma chiaramente che il movente non è connesso con la vicenda principale) e che nessuno dei personaggi principali sia la vittima; ma a parte qualche falla nella psicologia dell’assassino (che rientra in quegli errori cui Carr ci ha abituati data la sua tendenza a fidarsi di fonti poco attendibili o superficiali per le sue ricerche; vedi ad esempio le castronerie storiche sulla stregoneria in Una croce era il segnale) resta il fatto che la soluzione alla fine è perfettamente logica e deducibile dagli indizi e nessuno si può lamentare del fair play in questo caso.

In definitiva, un romanzo che seppure non di categoria A-1 (un’espressione di cui Carr fa amplissimo uso in questo libro; nella traduzione ovviamente vengono usate espressioni italiane equivalenti) è decisamente godibile e consigliabile.
(J.S. Moran)

Ethel Lina White – Svanita nel nulla (She Faded Into Air, 1941)

Libro che riprende un tema caro all’autrice, quello della scomparsa misteriosa, e lo fa con grande maestria. Una giovane donna viene lasciata dal padre e dal padrone di casa sulla soglia di un appartamento, vi entra. Dopo parecchi minuti, i due uomini non vedendola ritornare bussano, e la donna che lavora in quell’appartamento nega di aver mai visto la giovane. L’appartamento viene letteralmente distrutto alla ricerca, vana, della donna. È solo l’inizio di una storia che prevede altri colpi di scena e un’altra sparizione simile alla prima.

È leggermente diverso dai classici gialli di quel periodo, a me è piaciuto molto. Scritto bene, e fondamentalmente leale, il meccanismo della sparizione e chi vi è coinvolto sono abbastanza intuibili, lo è meno la seconda sparizione e il modo molto brillante in cui si lega alla prima. Uno di quei casi in cui almeno una parte della soluzione è abbastanza facile da dare al lettore esperto la possibilità di dire “ci sono riuscito”, ma con abbastanza dettagli che invece richiedono spiegazione da non deluderlo. Anche la credibilità della soluzione è buona, nel contesto della storia naturalmente.
(Alberto Avanzi)

Ellery Queen – Il gatto dalle molte code (Cat of Many Tails, 1949)

Devo confessare che a spingermi verso questa lettura non è stato tanto la fama dell’autore (meglio sarebbe dire degli autori), quanto piuttosto il ricordo di un film di Dario Argento (“Il gatto a nove code“) famosissimo, nella lunga e sensazionale cinematografia di questo regista, che ritenevo a torto tratto da questo romanzo. Comunque sia è stata una bella lettura, conclusa nel giro di poche ore, di quelle che ti lasciano fino all’ultimo incollata alle pagine, che mi ha fatto sperare di essermi finalmente salvata da una persistente e noiosissima “secca di lettura”.

Ma veniamo al libro. Edito nel 1949, è in un certo senso un giallo atipico tra quelli con protagonista Ellery. Non sorprende che il personaggio si sia affrancato dai vizi originari, quando per l’evidente snobismo e lo studiato senso di superiorità veniva accostato a Philo Vance. Né che si riproponga per l’esito positivo delle indagini la collaborazione in team con il padre Richard Queen ispettore capo della squadra Omicidi. Una collaborazione che peraltro in questo romanzo intrattiene il lettore piacevolmente, con tocchi di leggerezza. Né che si attenui la consueta sfida con il lettore, espediente che già in precedenti opere aveva perso centralità. Ma in questo caso interviene e sorprende una tormentata riflessione dell’investigatore sulla utilità della sua funzione, che lo porta a rasentare l’abbandono e l’allontanamento definitivo da quella che pur essendo per lui una seconda attività non può certo definirsi un hobby.
Insomma, il lettore coglie Ellery Queen nel bel mezzo di una crisi che si potrebbe definire esistenziale, tanto che le ultime pagine del romanzo, a mistero concluso, insistono su un dialogo di Ellery con un improvvisato sostenitore psichiatra che scioglie i suoi enigmatici dubbi anche di carattere etico.
Si aggiunga che la storia è incentrata su un killer seriale, altro carattere poco usuale nella narrativa di Ellery. Al successo del libro contribuisce anche la sapienza con cui viene proposta l’ambientazione in una New York, appena uscita dalla devastazione della guerra, che si consegna al panico derivante dalla sequenza dei nove assassini con poca fiducia nelle istituzioni e tentazioni di autarchia miseramente fallibili.

Un buon libro, dunque, che però presenta anche delle pecche, a cominciare da un plot molto elementare e da un finale che, quanto a suspense, lascia a desiderare.
(Chiara Sardelli)

Paul Halter – La nuit du loup, 2000

Ho letto l’edizione francese di questa raccolta di racconti dello specialista moderno delle camere chiuse Paul Halter, raccolta che differisce dalla versione inglese The Night of the Wolf per un paio di racconti. Il racconto della raccolta in francese “Un Rendez-vous aussi saugrenu“, contenendo un gioco di parole in francese intraducibile, è stato sostituito nella raccolta in inglese da “The Abominable Snowman“. Inoltre, sempre nella raccolta in inglese, è stato aggiunto anche “The Golden Ghost“. Quindi, per rendere agevole il confronto a chi ha letto la raccolta in inglese, per ogni racconto indicherò anche il titolo corrispondente in inglese. Inoltre mi piace segnalare anche la classificazione dei singoli racconti fatta da Pietro De Palma nel suo blog.

L’ESCALIER ASSASSIN (THE TUNNEL OF DEATH) – delitto impossibile
Manca l’atmosfera che Halter crea di solito giocando con elementi soprannaturali. La soluzione del delitto impossibile è ingegnosa anche se non particolarmente machiavellica. Mi rimane un dubbio sull’identità del personaggio misterioso che con un trucco fa capire la soluzione a Roussel. 3* 1/2

LES MORTS DANSENT LA NUIT (THE DEAD DANCE AT NIGHT) – camera chiusa classica
Qua c’è tutto il miglior Halter: atmosfera macabra, una cripta infestata, bare che si spostano, morti che ballano. Ma alla fine soluzione e movente sono estremamente umani. E, vabbè che i possibili colpevoli sono pochi, ma giuro che avevo pensato a quello giusto ben prima dello svelamento finale. 5*

UN RENDEZ-VOUS AUSSI SAUGRENU (mancante nell’edizione inglese) – racconto di deduzione poliziesca
È il racconto non tradotto in inglese, per un gioco di parole in francese che non si può rendere nelle altre lingue. Conoscendo bene la lingua, sono felice di averlo capito quasi subito, prima che lo svelasse il narratore. Il finale è interessante: è abbastanza chiaro che il “gioco delle coppie” è all’interno dei 4 personaggi principali. Ma quale sarà l’abbinamento giusto? 4*

L’APPEL DE LA LORELEI (THE CALL OF THE LORELEI) – camera chiusa nella neve
La leggenda della Lorelei, la sirena del Reno che attirerebbe i marinai nelle sue acque, crea il necessario alone di mistero e di soprannaturale che contraddistingue spesso Halter. Alla fine anche qui il movente è semplice e la soluzione ancor di più. Ingegnosa la trovata del corridoio. 4*

LA MARCHANDE DE FLEURS (THE FLOWER GIRL) – camera chiusa classica e/o nella neve
Abbiamo sia le ‘famose’ impronte sulla neve venute chissà da dove (in questo caso si tratta della slitta di Babbo Natale e delle sue renne!) sia i doni consegnati in una stanza chiusa, senza nessuno presente. Il racconto è più lungo degli altri e permette una delineazione più accurata di ambiente e personaggi. Come mio solito per le soluzioni più ‘tecniche’, ho dovuto leggere un paio di volte la spiegazione sulle impronte. Però davvero ingegnosa e mai letta prima, almeno da me. 5*

RIPPEROMANIE (RIPPERMANIA) – racconto di deduzione poliziesca
Ricordando la storia di Jack lo Squartatore e soprattutto le varie ipotesi che furono fatte riguardo al possibile colpevole, è facile indovinare anche in questo racconto chi è il maniaco. 3*

LA HACHE (THE CLEAVER) – racconto di deduzione poliziesca
Bisognerebbe sempre ricordare che, quando tutte le possibilità sono escluse, l’unica che resta è per forza quella giusta. Alla fine questo porta alla soluzione del caso! L’ambientazione nel vecchio West americano manca comunque di atmosfera ‘maledetta’. 3*

MEURTRE A’ COGNAC (MURDER IN COGNAC) – camera chiusa classica
Anche qui potremmo dire che nel titolo Halter gioca con le parole per dare più significati ai fatti. Infatti io lo interpreterei sia come “Omicidio a Cognac” (dove avvengono i fatti) sia come “Omicidio con cognac” (riferito al liquore). In questo modo svia il lettore dal vero modo con cui è avvenuto l’omicidio. Anche il palese omaggio al Nome della Rosa di Eco è un depistaggio. 4*

LA NUIT DU LOUP (THE NIGHT OF THE WOLF) – camera chiusa nella neve
Qui Halter si supera davvero nel giocare su più piani di significato e di interpretazione dei fatti. L’articolo di De Palma lo spiega benissimo e quindi non mi ci soffermo. Aggiungo solo che avevo intuito fin dal preambolo in corsivo chi è il “padre” che racconta la storia di Wolf ai propri figli. 5*
(Martina Sartor)

Roger Scarlett – Gli omicidi di Beacon Hill (The Beacon Hill Murders, 1930)

Roger Scarlett in realtà è una sorta di Ellery Queen in gonnella, essendo lo pseudonimo di Dorothy Blair (1903-1976) ed Evelyn Page (1902-1977). Mia prima esperienza con questa coppia, positiva.
Un bel giallo classico, con una situazione che per certi versi ricorda The Judas Window: un uomo viene ucciso in una camera chiusa, nella quale si trova insieme a lui un’altra persona, che però è innocente. I personaggi sono pochi e ben caratterizzati, ci sono (benchè sostanzialmente inutili) ben tre piantine, il grosso dell’indagine è basato sui caratteri e i possibili moventi delle persone che erano in relazione con la vittima, in un appassionante evolversi di indizi e piste fino alla resa dei conti finale, con una bella soluzione, credibile e verosimile (anche se non era quella a cui avevo pensato).

L’unico aspetto di parziale delusione, per chi come me ama le ambientazioni classiche, che siano le metropoli di Nero Wolfe o Ellery Queen oppure la campagna inglese di Miss Marple, qui l’ambientazione rimane sullo sfondo e non “prende”, concentrandosi le autrici sulla parte più investigativa. La storia potrebbe svolgersi ovunque e in qualunque tempo, per come viene narrata. Anche la camera chiusa non è particolarmente avvincente dal punto di vista “meccanico”, e il suo meccanismo viene svelato quasi subito, non essendo questo (come invece avviene nei classici del genere a partire da Carr) l’aspetto su cui le autrici costruiscono la trama.
(Alberto Avanzi)

Philip MacDonald – La morte è impazzita (Murder Gone Mad, 1934)

Ho preso, in una bella edizione del Detective Club in inglese, Murder Gone Mad. Ero curioso di leggere questo romanzo, che fa parte della lista dei dieci migliori gialli di sempre per John Dickson Carr. Finora avevo letto solo un altro romanzo di MacDonald (The list of Adrian Messenger, in italiano I nove volti dell’assassino) che non mi aveva entusiasmato.
Il giudizio è misto. Di per sé il libro è molto buono, scritto benissimo, con il giusto tocco di humour, con personaggi secondari ben caratterizzati e azzeccati e un investigatore altrettanto ben delineato, che non fa rimpiangere l’assen
za del colonnello Gethryn, il classico protagonista di MacDonald.
51n5MJkS7kL.jpgDal punto di vista dell’enigma, però, in un certo senso è una delusione. Non tanto e non solo perché non è un whodunnit classico: ci sta tutto, in un romanzo innovativo che introduce pionieristicamente il tema del serial killer. Quindi che alcune discrepanze e sottigliezze (che a me sembrava sarebbero tornate utili) poi non significhino nulla e che l’assassino venga individuato con metodi puramente da police procedural e non da deduzioni logiche, ci sta.
Quello che ci sta un po’ meno è che, se dobbiamo prestare fede a quello che ci viene detto nel romanzo dal punto di vista del narratore terzo e onnisciente, il colpevole non può essere quello che viene rivelato alla fine. In pratica a circa tre quarti del romanzo si tira un colpo di spugna e quello che è stato detto fino a quel punto non va più preso per oro colato. Una macchiolina piccola, ma fastidiosa. Pazienza.
Giudizio finale: buono, ma non da top ten della storia del giallo.
(J.S. Moran)