Keigo Higashino — Il sospettato X (Yōgisha X no Kenshin, 2005)


Capolavoro.
Parafrasando un meme che girava sui social qualche mese fa “chi ti consiglia un bel libro è una persona importante”. E allora “chi ti consiglia un capolavoro è una persona meravigliosa”. Infatti ho sempre pensato che il modo migliore di gustare un libro, o un film, è non sapere nulla della trama, basandosi sulla fama dell’autore o del regista, sul proprio istinto o sul consiglio di un amico. Quanto a quest’ultima parte, specie in un settore di nicchia come il giallo, anzi giallo psicologico, nello specifico giallo psicologico giapponese, è proprio la forza dei social (che spesso sono usati male, per litigare con sconosciuti o per spargere notizie false che generano odio, come abbiamo visto poche ore fa) quella di permetterti di conoscere persone che vivono lontano da te (o anche vicino ma che altrimenti non avresti incontrato) che condividono i tuoi gusti e interessi quel tanto che basta per apprezzarne i consigli, ma non completamente in modo da darti poi il gusto di commentare e confrontare le opinioni.
Su consiglio di un amico, ho scelto questo libro per uscire da un breve (ma che a noi, lettori compulsivi, è sembrato lunghissimo) periodo in cui non riuscivo a trovare qualcosa da leggere di davvero emozionante. Ed ho condiviso il giudizio che già il mio amico aveva dato: Capolavoro! Una parola che io tendo a usare con parsimonia, ma che qui è assolutamente adeguata. Qua sotto lo recensirò (naturalmente al solito senza spoilerare) ma prima vi do un consiglio, che magari vi sembrerà paradossale: se vi fidate, che sia perché ci conoscete tramite i miei contributi e avete imparato i miei gusti, o che sia perché il vostro istinto di lettore vi dice di farlo, non leggetela neanche la recensione, e gustatevi il libro come me lo sono gustato io, senza sapere nulla. Credetemi, ne vale la pena. Se proprio ci tenete, a ogni modo, ecco la mia recensione:

Uno scontro di cervelli. Due persone entrambe incredibilmente geniali, ma dall’altra parte della barricata. Come se Miss Marple indagasse su un crimine nel quale c’è la complicità di Poirot.
Ishigami è un matematico e lavora come insegnante in un liceo privato, dedicandosi nel tempo libero alla ricerca matematica. Yukawa è un fisico, e fa il ricercatore all’università. I due un tempo erano compagni di corso, e inutile dirlo erano i due studenti più brillanti di quell’anno.
Ishigami, sul cui punto di vista si apre il romanzo, è infatuato in modo molto garbato e discreto di una vicina di casa, Yasuko, una donna separata con una figlia adolescente che lavora come cameriera poco lontano dalla scuola dove egli insegna.
Un giorno, torna alla carica l’ex marito della donna, incontrandola prima in un locale presso il lavoro e successivamente a casa di lei. Per una serie di circostanze Yasuko e la figlia per difendersi da lui si trovano prima ad immobilizzarlo e poi a ucciderlo. Ed è qui che entra in gioco Ishigami, che come vicino di casa ha sentito e capito tutto e si offre di aiutarle a far sparire le prove e a occultare il cadavere. Effettivamente poco dopo verrà trovato e identificato il cadavere dell’uomo, mentre Yasuko sembra avere un alibi inattaccabile.
Il detective incaricato delle indagini è a sua volta amico di Yukawa, e i due geni si incontrano e si sfidano dapprima da un punto di vista puramente matematico (bellissimo come l’autore riesca a spiegare il problema P=NP in modo comprensibile anche ai lettori che non hanno il background tecnico adatto, e come riesca a darne una versione che si applica proprio alle indagini criminali: La questione se determinare l’esattezza di una soluzione a un problema sia altrettanto facile quanto trovare tutte le soluzioni al problema stesso) per poi arrivare a sfidarsi. Quella che sembra essere una normalissima inverted story, come quelle del tenente Colombo, (ma questa volta con due menti geniali dalle due parti della barricata) a un certo punto, in maniera completamente inaspettata, evolve in qualcosa di completamente diverso, che non specifico ovviamente per non togliere la sorpresa.
Mi limito a dirvi che ero riuscito, sia pure con una piccola lacuna che al mio uso avevo colmato con un eccesso di fantasia, a comprendere la reale dinamica dei fatti, ma non le motivazioni psicologiche che ci stavano dietro, che l’autore ha saputo rendere in maniera estremamente verosimile e al tempo stesso spiazzante.
Un romanzo immenso per la soluzione gialla adottata (che a me ha richiamato alla mente, non nei dettagli ma nella idea di base, un celebre romanzo della Christie), per la caratterizzazione psicologica dei personaggi, soprattutto i due duellanti ma non solo loro, per l’atmosfera impeccabile, per uno stile bellissimo. Chiudo con la parola con cui ho iniziato: capolavoro.

(Alberto Avanzi)

Agatha Christie — Il Natale di Poirot (Hercule Poirot’s Christmas, 1938)

Il Natale è un periodo particolare, pieno di luci, di un’atmosfera gioviale, in cui ci si riunisce in famiglia mettendo da parte i dissapori e mostrandoci più buoni e caritatevoli. E cosa c’è di meglio in questo periodo dominato da bontà vera o forzata, da grandi abbuffate, da calore umano e da misericordia di un bel delitto cruento, che spicchi con truculenta evidenza sopra questo sfondo candido e immacolato? Lo sanno bene i grandi giallisti, che non si sono lasciati scappare neanche questo momento dell’anno per ambientarvi una storia delittuosa. A mio parere, il re dei romanzi gialli natalizi, il libro che più di ogni altro riesce a coniugare Natale e crimine è sicuramente il capolavoro di Agatha Christie, Il Natale di Poirot: è un romanzo talmente grandioso che ormai è una mia tradizione personale rileggerlo ogni anno durante le ultime festività dell’anno.

Il Natale di Poirot (1938) è un romanzo classicissimo, con un’intricata trama gialla, una pletora di personaggi memorabili ed un finale sbalorditivo e fenomenale. È nello stesso tempo tradizionale e innovativo nei contenuti e nelle forme, capace di immergerti in un’atmosfera raccolta e stupirti con una soluzione geniale. È il perfetto esempio di romanzo da leggere mentre fuori cadono danzando leggiadri fiocchi di neve, davanti ad un bel fuoco di ceppi schioppettanti.

La storia inizia il 22 dicembre: Simeon Lee è un anziano libertino che vive nell’immensa villa chiamata Gorston Hall assieme al suo primogenito Alfred e a sua moglie Lydia. Simeon era divenuto ricco in passato grazie al commercio di diamanti e aveva condotto una vita sregolata, sempre circondato da donne e rendendo la vita a sua moglie, morta anni prima, un inferno. Ormai è quasi un invalido, non si muove più dalla sua stanza. Questa sua infermità però non lo trattiene dal governare a suo piacimento le vite di tutti i suoi figli, che tuttora dipendono economicamente da lui. Per questo non possono certo rifiutare il suo invito a trascorrere il Natale nella sua dimora. Nei primi capitoli, la Christie, con grande maestria, ci delinea con rapide ma efficaci pennellate le personalità dei vari personaggi e le loro reazioni alla richiesta del vecchio signor Lee a trascorrere le feste sotto il suo stesso tetto: vediamo Alfred e Lydia indaffarati nel rendere accogliente Gorston Hall per gli ospiti; conosciamo l’altro figlio George, uomo taccagno ed ironicamente membro del Parlamento inglese, e sua moglie Magdalene, donna dispendiosa e piena di debiti, che decidono di accettare per ingraziarsi il povero (e facoltoso) genitore e per risparmiare sulle spese della propria servitù; assistiamo al dialogo tra David, musicista dall’indole idealista, e sua moglie Hilda, la quale vuole spingere il marito restio a tornare nella casa paterna dopo molti anni dal non averlo più visto, a seguito della morte della madre, cui fu molto attaccato e della cui morte aveva sempre ritenuto colpevole suo padre per il suo comportamento riprovevole. Dopo questo preambolo, che include anche l’arrivo della giovane nipote spagnola Pilar Estravados e quello del “figliol prodigo” Harry, tornato dopo oltre 20 anni di latitanza per aver disonorato la famiglia, la Christie comincia a dipingere l’atmosfera della villa dopo l’arrivo dei vari ospiti e i rapporti che intercorrono tra di loro. Nonostante il clima natalizio, il clima è fortemente teso: il ritorno di Harry crea un certo scompiglio tra i vari familiari, specie in Alfred, il classico tipo del figlio rispettoso e sempre devoto al padre, che lo aveva sempre disprezzato per la sua condotta scandalosa; tutti inoltre sembrano ansiosi, fingono una cordialità che in realtà non avvertono verso gli altri; David, rivedendo i luoghi della sua gioventù, torna a sentire il triste passato e riaffora in lui il ricordo di sua madre, che rende ancor maggiore il suo rancore verso il padre. Insomma, a Gorston Hall non si respira un’aria di tranquilla serenità. Nonostante ciò tutti continuano a fingere, a mostrarsi cordiali per il bene dell’apparenza. Ma se credono che Simeon Lee li abbia riuniti lì perché raddolcitosi col passare degli anni, essi si sbagliano di grosso. Il pomeriggio della Vigilia, manda il suo valletto personale, l’untuoso e schivo Horbury, a chiamare tutti i suoi familiari affinché salissero nella sua stanza. Il vecchio maligno escogita con il suo cameriere un richiamo che lo avverta a metà della scalinata del loro arrivo, così che possa alzare la propria voce e far sentire la sua conversazione con l’avvocato in merito ad un eventuale cambiamento dei lasciti nel testamento. Una mossa astuta per seminare zizzania nella già turbolenta famiglia. Dopo aver annunciato loro la sua intenzione di ridurre alcune quote che versava ai figli per includere anche Pilar e Harry, e dopo alcune maliziose insinuazioni, accusa tutti i suoi parenti di essere degli smidollati per non avergli dato neanche un nipote. Poi li caccia via bruscamente. Tutti sono turbati, la tensione ora si può tagliare con il coltello. È evidente ormai che il vecchio Lee non abbia voluto riunire la famiglia per appianare le liti, ma per divertirsi e giocare perversamente con i loro punti deboli. Un gioco molto pericoloso.
Nel frattempo, poco prima delle 20 suona il campanello d’ingresso: è il sovrintendente Sugden, il quale cerca il signor Lee per alcune donazioni agli orfani dei poliziotti. Il fedele maggiordomo Tressilian lo conduce di sopra e corre a preparare la cena per gli ospiti. Il clima a tavola non è per nulla migliorato: tutti mangiano in silenzio e con volti scossi e turbati. Più che celebrare il Natale, sembra che stiano partecipando ad un funerale. E in effetti tale analogia ben si addice a quanto avverrà poco tempo dopo.
Al termine del pasto, ognuno si divide in varie parti della casa. L’ambiente è carico di angoscia e l’aura di inquietudine raggiunge l’apice quando dalla camera del signor Lee proviene il rumore di mobili rovesciati, di vasi frantumati e di tonfi di vari oggetti. Poi si ode un grido inumano, di un’anima agonizzante, sul punto di morire. Tutti accorrono scomposti su per le scale. La porta della camera è chiusa a chiave dall’interno. Bussano incessantemente ma non ottengono alcuna risposta. Non resta che sfondarla. Dopo esser riusciti nell’impresa, davanti ai presenti si staglia uno spettacolo agghiacciante: nel mezzo di un caos di oggetti rovesciati e distrutti, giace davanti al camino il corpo senza vita del padrone di casa, con una ferita sul collo, in un lago di sangue.
Intanto si sente il campanello della porta d’ingresso suonare ripetutamente: è l’ispettore Sugden che, sentito il trambusto, chiede spiegazioni. Subito accorre sulla scena del delitto e prende le redini delle indagini.
Nel frattempo Poirot si trova a casa del colonnello Johnson per trascorrere con lui le festività. Parlano della magia del Natale e di delitti e Poirot espone una sua interessante teoria, secondo cui è proprio nel clima natalizio che spesso si compiono i crimini più efferati perché domina in tale periodo un’ipocrisia che spesso scatena gli istinti peggiori dell’uomo. Il suo pensiero sembra trovar subito conferma: una chiamata avverte Johnson dell’omicidio di Simeon Lee. Così Poirot, che non si tiene mai indietro quando si parla di delitti, accetta di accompagnare il colonnello ed entra in scena.
Il caso si presenta sin da subito pieno di complessità e di contraddizioni: Sugden afferma infatti di essere arrivato lì alle 20 per una telefonata fattagli dalla stessa vittima in merito al furto di diamanti di cui sarebbe stato vittima. Dopo un breve colloquio con lui, Lee aveva convinto il sovrintendente a tornare un’ora dopo, perché avrebbe scoperto nel frattempo chi era stato. Dubbioso, Sugden acconsentì. Ecco perché era tornato a Gorston Hall, proprio quando era stato commesso il delitto. Dunque si tratta di omicidio legato al furto di gioielli? Controllando la cassaforte si scopre in effetti che essi sono spariti. Ma molte sono le incognite nel caso: perché tutto quel caos di tavoli e poltrone rovesciate, di porcellane infrante, di oggetti sparsi nella stanza? Che l’assassino avesse lottato violentemente con la vittima? Eppure Simeon Lee, sebbene fosse stato un uomo forte, ora non era che un tipo mingherlino, un invalido, per cui sarebbe stato facile ucciderlo in silenzio. Allora perché tutto quel baccano? Poi c’è la questione della porta chiusa: il sovrintendente, esaminando la chiave, scopre che è stata fatta girare dall’esterno con un paio di pinzette. Perché? E soprattutto chi era stato tra i membri della famiglia? Poirot dovrà districarsi tra interrogatori, false verità e indizi insensati come un turacciolo di legno e un pezzetto di gomma rosa per scoprire un assassino diabolico, pronto a tutto, anche ad uccidere di nuovo…

Il Natale di Poirot è la quintessenza del giallo classico, l’esempio perfetto del delitto in famiglia. Un romanzo fenomenale sotto vari punti di vista, che mostra la Christie al suo meglio, con una trama tradizionale animata da stimoli ingegnosi e originali.

La Christie, si sa, è universale, letta e amata dai lettori più disparati, anche da coloro che non sono appassionati di gialli. Il motivo di ciò –lo si evince fortemente in quest’opera– è il suo stile di scrittura, il suo modo di narrare. La penna della Christie riesce a dipingere affreschi sociali ed emotivi con una leggiadria e una semplicità sbalorditivi. Non impiega mai fraseologie astruse, contorte e difficilmente accessibili, ma utilizza un lessico semplice ed elegante, una sintassi regolare e un periodare paratattico e armonioso. Con poche parole è capace di immergere il lettore nell’ambientazione voluta, di far sentire i personaggi come persone reali, vive, di descrivere con sorprendente facilità la complessità del mondo interiore umano. Questa sua abilità si rispecchia anche qui, soprattutto nei primi capitoli.
La Christie infatti, prima di entrare nel cuore della vicenda prettamente delittuosa, nelle pagine iniziale si concentra a delineare le varie dramatis personae, a farci conoscere intimamente i vari protagonisti. Le loro personalità vengono fuori chiaramente in questi brevi dialoghi privati tra moglie e marito e comincia nel contempo ad emergere la tensione nei rapporti tra Simeon e i vari figli, funzionale alla costruzione dell’atmosfera soffocante che si respirerà a Gorston Hall prima e dopo il delitto.
Questa cura nella caratterizzazione rende estremamente godibile la trama, popolata da caratteri a tutto tondo, ben identificabili nei loro pregi e nelle loro infinite debolezze. La Christie qui cura molto più che in altri suoi romanzi la psicologia dei vari sospetti, creando non solo un enigma avvincente, ma anche un dramma umano ed un pathos raffinati e potenti. Mette in luce i tormenti personali, come il nucleo familiare a volte, lungi dall’essere quell’oasi di protezione e tranquillità, possa divenire un ambiente estremamente tormentoso. Molte volte la Christie parla di eredità genetica, di come tratti caratteriali dei genitori vengano trasmessi ai propri figli: proprio in tali passi emerge una concezione un po’ amara dell’esistenza, una sorta di fatalismo, in cui l’indole di ciascuno è già predeterminata dai tratti psicosomatici dei propri predecessori. Così, ognuno dei Lee ha ereditato le tare che affliggono da tempo la casata: l’orgoglio, lo spirito vendicativo, la tenacia nel raggiungere i propri scopi, positivi o negativi che siano. Il dramma dei Lee è il dramma del non poter essere diversi da ciò che si è. Non è infatti solo Simeon, con il suo passato burrascoso e i suoi modi maligni, ad aver alimentato il fuoco del delitto, ma soprattutto i tratti caratteriali dell’omicida.
Il Natale di Poirot è dunque anche una tragedia familiare, un grande affresco di come spesso i lati più brutali dell’uomo emergano con tale violenza da condurre ad atti esecrabili. E tali misfatti assumono ancor più rilievo per antitesi con il periodo natalizio che dovrebbe indurre le persone a passar sopra ai propri rancori. Anzi, proprio questa finzione fa aumentare la pressione e nessuna valvola di sfogo basta a contenere gli istinti che emergono e che non si riescono più a dominare.
L’opera, per questi tratti, è tra le più teatrali scritte dall’autrice, sia per i sentimenti e i vizi che aleggiano nelle pagine e che costituiscono i potenziali moventi del crimine (ci sono tutti: rancore, vendetta, denaro, amore, furto), i quali agiscono anche da astuta misdirection per il lettore, sia per la struttura stessa della narrazione.

La storia, dopo un preambolo che presenta i vari personaggi, come il primo atto di una piece teatrale con cui si portano gli spettatori a familiarizzare con le varie persone sulla scena, si impernia su un succedersi continuo di capitoli intensi, pervasi da una tensione costante, e spesso conclusi con scene d’impatto, fortemente drammatiche.
Non a caso i capitoli spesso sono conclusi con citazioni elevate, con allusioni sottili, con la manifestazione di forti emozioni.
“Chi avrebbe pensato che il vecchio avesse tanto sangue?” esclama Lydia, direttamente dal Macbeth, proprio in uno dei molti momenti clou, la scoperta del cadavere di Simeon, assieme a David che, quasi ergendosi a giudice supremo, cita un famoso passo della Bibbia: “I mulini di Dio macinano lentamente ma macinano molto fine”. In queste due frasi sono contenuti tra l’altro due dei temi portanti dell’intero libro: la violenza per avidità personale, per bramosia e il desiderio di vendetta a lungo covato.
È una scena molto teatrale, uno di quegli episodi dove sarebbe calato ad effetto il sipario, lasciando il pubblico fortemente mosso da questo turbine di forti passioni.
Questi momenti così pregni di pathos, ricorrenti nel corso delle indagini anche con scoperte significative sui vari sospetti, conferiscono alla storia un climax in costante ascesa e rendono scorrevolissime le pagine per il lettore, che sia è indotto a continuare per scoprire la verità, sia è trascinato dalla bellezza della resa letteraria così grandiosa degli antri più profondi della psiche umana.
La Christie gioca sui sentimenti, crea su di essi le varie false piste tra cui celare, visibilmente ma non palesemente, la verità. Rispetto ad altri libri della scrittrice, qui c’è una sovrabbondanza di elementi che può confondere il lettore dall’imboccare la giusta via ed infatti il tema dell’eccesso è fondamentale per la comprensione della dimensione più profonda di quest’opera. Infatti è proprio attraverso la sovrabbondanza di indizi, di sospetti, di sangue e di moventi che la Christie esaspera i toni, sottolinea prepotentemente la forza dell’odio e dell’avidità che sovrastano qualsiasi istinto caritatevole.
Dunque un romanzo intenso, travolgente pur se allo stesso tempo molto classico.
L’elemento strutturale tradizionale è dato proprio dalla sezione centrale, con indagini meticolose, interrogatori e controinterrogatori di ogni personaggio, seguiti dal metodo classico di indagine di Poirot basato sulla conversazione spontanea con i sospetti e la finale ricostruzione del crimine davanti a tutti i personaggi. Insomma, un giallo britannico tradizionalissimo, reso ancor più classico dalla presenza del topos del sottogenere della camera chiusa. Sebbene questa venga risolta relativamente presto, avrà una sua parte importante anche nello straordinario finale. Non solo la camera chiusa è funzionale per l’omicida, essa sembra simboleggiare anche la chiusura, l’avidità della vittima. Si evidenzia fisicamente quella barriera che ha sempre diviso il padre dai propri figli. Simeon Lee muore così, come una vittima sacrificale, sgozzato, in un lago di sangue e in una stanza chiusa, quasi come se la persona colpevole abbia voluto sbeffeggiarlo nella morte indicandogli come, nonostante avesse una ricca prole, sia legittima che illegittima, fosse stato sempre solo, isolato nella sua malignità e brama di potere. Attorno a sé non ha che frammenti e mobili rotti, persino i diamanti sono scomparsi. Della ricchezza e della sua caparbietà non è rimasto che il ricordo.
Un’opera per certi versi crudele, che svela abissi insondati di rispettabili famiglie inglesi.

Oltre a questi elementi classici, ce ne sono di più innovativi, specialmente per quanto riguarda la soluzione dell’enigma. Il romanzo ha infatti un finale sorprendente, logico e ben strutturato. Davvero grandioso è il ragionamento deduttivo che porta Poirot a scoprire la verità. Il piano delittuoso è astuto, uno tra i più ingegnosi usciti dalla penna della Regina del giallo. Anche la costruzione della narrazione è funzionale alla buona riuscita della rivelazione finale: la Christie, in un clima di crescente tensione, svela a poco a poco le menzogne di alcuni sospetti, risolve alcune questioni minori, ma tutto questo, lungi dal rendere più chiara la situazione, la costella di elementi ancora più incomprensibili. Paradossalmente quando si comincia a liberare il campo dalle diverse piste sbagliate, la faccenda si ingarbuglia, con testimonianze che rendono tutto più assurdo. Di conseguenza si acuisce la suspence e il lettore è tenuto incollato alle pagine finali. Poi, all’improvviso, vi è la rivelazione finale che rende tutto logico, grazie a cui tutti i pezzi del puzzle si incastrano alla perfezione e si spiegano anche le più piccole perplessità. Ci si rende conto di come si guardava il caso da una prospettiva sbagliata e giusta assieme. Una grande conclusione che ben si adegua al carattere dell’opera e soprattutto molto convincente dal punto di vista psicologico.
Poi ci sono alcuni piccoli capitoli finali, dopo la spiegazione di Poirot, che fungono da commiato a quest’opera così intensa. Un commiato che, in contrasto con quanto successo precedentemente, è nostalgico, catartico, liberatorio.

Il Natale di Poirot è dunque un’opera intensa, pervasa di passioni forti, di violenza e che racchiude in sé un affresco dettagliato e incisivo della famiglia alto-borghese della Londra degli anni ’30-’40. Un romanzo da leggere e rileggere, per riscoprire sempre nuovi tratti, nuovi punti di suggestione e per lasciarsi ammaliare dalla bravura della Christie come giallista ma anche come fine descrittrice della natura umana.

(Gabriele Crescenzi)

Gigi Pandian — The Glass Thief (2019)

Che il giallo classico abbia visto il proprio crepuscolo nel secolo precedente, dopo decenni di grande fulgore creativo e letterario, è una grande fandonia. Infatti, alcuni autori contemporanei, quantunque in numero nettamente inferiore rispetto a quanto avveniva in passato, hanno deciso di sfidare i tempi e di cimentarsi nell’ardua impresa di creare trame gialle originali e gradevoli, nel pieno rispetto del fair-play. Ne sono un chiaro esempio scrittori del calibro di Paul Halter, Peter Lovesey e Martin Edwards. Ma anche autori emergenti dimostrano come il giallo sia tutto fuorché caduco: James Scott Byrnside è infatti creatore contemporaneo di trame meravigliose e complicate, degne di divenire classici del genere. Curioso dunque di scoprire nuovi talenti nel mystery, mi sono imbattuto in una scrittrice molto quotata, autrice di una saga di gialli in cui mescola enigmi, archeologia e storie d’amore, con protagonista Jaya Jones, esperta di storia orientale e nota ricercatrice di tesori perduti.
Venendo a conoscenza poi del fatto che in un suo titolo figurava un delitto impossibile, non me lo sono lasciato sfuggire. Il libro in questione è The Glass Thief.

The Glass Thief è un cosy-mystery, ossia un giallo in cui la violenza eccessiva e gli aspetti più sordidi dell’esistenza vengono accantonati a favore di un’indagine più tranquilla, condotta da un investigatore dilettante e con la presenza di numerosi inserti sulla sua vita sentimentale. Insomma, dei gialli più leggeri e frizzanti.
The Glass Thief è un romanzo scorrevole, godibile, popolato da personaggi simpatici ed assortiti, con un delitto impossibile interessante.

La trama inizia in un ristorante indiano, il Tandoori Palace, dove si trova la dottoressa Jaya Jones, insegnante di storia in un’università californiana, in attesa della sua usuale esibizione musicale nel locale con il suo miglior amico, il prestigiatore Sanjay. All’improvviso arriva anche Becca Courtland, allieva della protagonista, assieme al suo amico Wesley Oh per sottoporle una lettera antica che ha trovato infilata in un libro dell’800 della biblioteca universitaria e che potrebbe esserle utile per la sua ricerca sulla metodologia storica che deve consegnare a fine semestre. La lettera appare autentica ed è collegata ad un tesoro che sarebbe sepolto insieme alla nave naufragata che lo trasportava dalla Francia (il messaggio infatti è scritto in quella lingua). Avendola ritrovata nell’ateneo, si suppone che l’imbarcazione sia uno dei tanti relitti su cui si sia poi sviluppata la città di San Francisco. Becca è contenta che si tratti di materiale utile per il suo compito. Nel frattempo, giunge nella sala-ristorante anche Miles, archivista di Jaya, e le annuncia una notizia sorprendente: mettendo in ordine la sua casella di posta elettronica, ha notato una mail inviatale dal famoso Rick Coronado, grande scrittore di romanzi di avventura, con protagonista la temeraria Gabriella Glass, in cui spiega che vuole sottoporre alla sua attenzione il nuovo romanzo che sta scrivendo. Allegato al messaggio vi è il primo capitolo dell’opera in fieri. Tutto ciò sorprende Jaya, in quanto Rick Coronado non ha scritto più romanzi da sette anni, più precisamente da quando era sparito misteriosamente per 6 settimane ed era stato ritrovato in Cambogia svenuto. Che cosa ci facesse lì e cosa avesse fatto durante quelle settimane era rimasto un mistero. Fatto sta che da quell’episodio si era ritirato dalle scene, aveva cominciato a vivere come un recluso e non aveva più scritto nulla. Il suo ritorno ora è dunque sorprendente, tanto più che Jaya è una nota fan dello scrittore. Non vede dunque l’ora di terminare la sua serata per poter leggere il primo capitolo e inviare il suo giudizio all’autore, come egli stesso gli aveva raccomandato nel messaggio. Le premesse dell’opera sembrano interessanti: Gabriella Glass, eroina dei suoi libri sempre al servizio di donne vilipese e cercatrice di tesori, si trova alle prese con la maledizione che pende sulla famiglia Delacroix, la cui villa sembra infestata da uno spettro che in passato ha ucciso due membri della famiglia nello stesso giorno dell’anno, il 23 dicembre. Per questo è usanza dei Delacroix lasciare l’abitazione ogni anno in quel periodo in modo che non possa ripetersi la triste fine dei loro predecessori. Ciononostante il giovane Luc Delacroix, assieme ad un amico, vuole visitare la magione proprio in quel giorno e finisce per essere strangolato davanti a quest’ultimo, in una stanza con una porta di vetro chiusa dall’interno, da un essere invisibile. Non solo: subito dopo verrà spinto dall’invisibile presenza giù dalle scale, “morendo” una seconda volta. Cosa è successo? E come è possibile? A tutto questo trambusto si connette il furto impossibile di una statua antica, che sembrerebbe essere stata trafugata da un tempio in India. Proprio quest’ultimo fatto porta il caso all’attenzione dell’avventuriera Glass.
Qui finisce la storia narrata nel primo capitolo e Jaya, dopo aver inviato la sua approvazione all’autore, non vede l’ora di leggere il seguito. Sorgono però nella sua mente dei sospetti: Rick Coronado infatti non le risponde mai al telefono, contattandola solo per messaggio; inoltre scopre che neanche la sua editrice, la signora Abby Wu, sa cosa stia tramando. Comunque continuano ad arrivargli altri capitoli e alla fine di uno di essi l’eroina Gabriella Glass richiede l’aiuto di una studiosa di storia, di cui non è accennato il nome. Che Coronado si stia riferendo a lei stessa? Nella mente di Jaya comincia ad insinuarsi il dubbio che Rick non stia scrivendo un’opera di fantasia, ma che, attraverso quei fascicoli, voglia richiedere i suoi servigi per scoprire la verità in merito ad un omicidio impossibile e il furto di un antica statua che raffigura il “naga”, un dio-serpente protettore dei tesori nelle antiche leggende indo-cambogiane. Tra indagini, vari indizi, un altro misterioso omicidio e vari attacchi intimidatori, Jaya Jones, viaggiando tra la Francia e la Cambogia, riuscirà a svelare tutti i misteri che si celano dietro l’ultima opera di Rick Coronado.

The Glass Thief è un’opera fresca, scritta molto bene, con uno stile scorrevole e divertente. Nonostante ciò è un romanzo che mi ha lasciato perplesso su molteplici aspetti, sia strutturali che contenutistici.
L’opera si snoda su numerosi piani narrativi che sembrano non aver punti di contatto (lettera ritrovata da Becca, nuova opera di Rick Coronado, la maledizione dei Delacroix, la leggenda cambogiana dei naga), ma che alla fine risultano strettamente correlati tra di loro. Conseguenza di ciò è che all’inizio il lettore si sente leggermente disorientato dai molteplici fili narrativi da seguire che sembrano non portare ad alcun progresso nell’indagine. Infatti la narrazione è costruita su un reticolo di livelli apparentemente distinti e a sé stanti, che alla fine però conducono nel medesimo punto. Se tale impianto può risultare gradevole per la scoperta, nel corso delle pagine, di legami insospettati che tengono alto l’interesse del lettore, dall’altra proprio la natura di tali nessi rende un po’ perplessi. La storia è infatti costellata da colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva che, lungi dallo stupire il lettore, creano ulteriore confusione e alcuni risultano altamente improbabili. Lo scopo della scrittrice sembra essere stato unicamente quello di stupire, di ammaliare e di avvincere eccessivamente, sino a risultare pletorica nell’uso di tali espedienti.

Altro grande problema, anche se mi rendo conto che si tratta più di una questione di gusto personale che di altro, è l’inserzione di molteplici scene sentimentali rigurdanti la complicata relazione tra la nostra eroina e il suo amato (ex ladro alla Robin Hood) Lane. Una storia d’amore non è così strana in un giallo, anzi, spesso è funzionale nel creare la situazione ideale per il delitto (si pensi ai capolavori della Christie La parola alla difesa e Il ritratto di Elsa Greer), ma qui assume un tono troppo patetico che risulta alquanto stucchevole ed è inoltre poco attinente alla vicenda centrale. Va bene che ci sia un po’ di sdolcinatezza, ma qui interi capitoli sono dedicati ai tormenti passionali della protagonista, descritti tra l’altro in maniera troppo standard per i miei gusti per risultare verosimili. Ammetto però che questa è una caratteristica ricorrente nei cosy-mystery, per cui è un giudizio prettamente scaturito dal mio gusto personale in fatto di gialli.

Ulteriore perplessità mi ha suscitato l’enigma che è il fulcro del romanzo: troppa azione e pochi fatti. Jaya Jones (alla pari di Indiana Jones) è una personalità attiva, portata all’azione e al viaggio, e ciò comporta l’evidente riduzione di parti dedicate all’indagine, alla riflessione e alla raccolta di indizi. Non che non ci siano, ma essi sono nettamente sovrastati da un andamento picaresco e avventuroso. A tal riguardo si nota una certa ingenuità narrativa, in quanto pochi sono i dettagli che vengono resi noti e, perciò, difficile è riuscire a formulare ipotesi sui vari crimini. Si pensi che dell’ultimo omicidio non viene menzionato neanche come sia morta la vittima.
La soluzione dell’enigma poi è per me molto forzata, troppo cinematografica, in quanto mira a creare pathos e ad innalzare la tensione, senza però risultare molto credibile. In ultima analisi la storia si configura come una gigantesca caccia al tesoro, che si snoda in giro per il globo, tra Jaya ed un fantomatico assassino. Per quanto concerne il delitto ed il furto impossibile, la soluzione di entrambi è abbastanza deludente: il primo viene risolto nel mezzo dell’opera in modo piuttosto banale, utilizzando una tecnica molto nota; il secondo ha una soluzione più carina ma quasi impossibile da capire per i pochi spunti dati al lettore, sebbene un minuscolo indizio ci sia. Insomma, non il massimo per chi ama i delitti impossibili. Il fatto poi che le rivelazioni non vengono effettuate in un unico momento, a ridosso della fine, ma gradualmente nella storia, crea un calo di tensione nella seconda parte della storia e non c’è quell’effetto sorpresa che di solito ti aspetti al termine di un giallo.

Però l’opera presenta alcuni aspetti certamente positivi: dapprima la descrizione dei luoghi, che dimostra la grande abilità narrativa della scrittrice nonché una profonda conoscenza delle località in cui ha ambientato le varie vicende, cosa che si riscontra in particolare nell’attenzione mostrata nel narrare la storia dell’antica civiltà cambogiana; inoltre la figura dell’eroina è molto ben delineata e si empatizza con lei nelle varie avventure, per le sue debolezze ma anche per i suoi innegabili punti di forza.

Insomma, The Glass Thief è un’opera leggera, divertente, adatta ad una lettura poco impegnata, ma decisamente carente dal punto di vista dell’enigma.

(Gabriele Crescenzi)

Dorothy L. Sayers — Lord Peter e l’altro (Murder Must Advertise, 1933)

Dorothy Leigh Sayers è uno dei grandi nomi del giallo classico inglese: scrittrice raffinata, donna di lettere, fu tra i fondatori del prestigioso e longevo Detection Club. Amata da molti per il suo stile elegante e romanzesco, per le sue abili pennellate descrittrive e per i suoi intrecci originali, la Sayers continua ancor oggi a stupire, sebbene il suo nome raramente venga menzionato tra i grandi del genere.
Fino ad ora non avevo mai letto nulla dell’autrice e consideravo ciò una grande lacuna nella mia cultura poliziesca e ho deciso dunque di porvi rimedio (meglio tardi che mai no?), anche perché ero incuriosito sia dai giudizi discordi di molti appassionati sia dalla sua tormentata e avvincente biografia, riportata nel saggio The Golden Age of Murder di Martin Edwards.
Ho iniziato con Lord Peter e l’altro (Murder Must Advertise, 1933).

Per comprendere l’opera però è necessario un piccolo excursus sulla vita dell’autrice, in quanto molti elementi di trama sono intimamente connessi con le sue vicende biografiche.
Dorothy Leigh Sayers nacque ad Oxford nel 1893, figlia di un vicario e devoto cristiano, Henry Sayers, che la educò severamente sin dall’età di sei anni, insegnandole anche il latino. Questa sua educazione rigida, ispirata all’integerrimo codice morale cristiano, è alla base dei suoi futuri tormenti, avendo profondamente radicati in sé il senso del peccato e saldi principi morali. Si dimostra ben presto molto intelligente, imparando molteplici lingue. Questa sua versatilità la porterà a studiare lingue ad Oxford, dove si laurea nel 1915, divenendo una delle prime donne inglesi a ricevere questo titolo.
La Sayers lavorò dapprima in una casa editrice, successivamente, tra il 1922 e il 1931, trovò impiego in un’agenzia pubblicitaria in Kingsway Hall, la S.H. Benson Ltd. In tale campo la Sayers dimostrò di essere una fuoriclasse, distinguendosi per l’invenzione di originali spot e loghi (uno fra tutti l’idea del logo della birra Guinness con un pellicano, oggi molto ricercata dai collezionisti). Questa sua esperienza nel mondo delle pubblicità, la sua conoscenza di come funzioni un’agenzia del genere si riflettono nell’opera Murder Must Advertise (il titolo in sé è difatti un annuncio pubblicitario). Nel frattempo pubblicherà molteplici romanzi gialli. Nei suoi ultimi anni di vita si occuperà della traduzione e del commento della Divina Commedia di Dante, mettendo così in luce la sua grande cultura letteraria.
Se la scrittrice ebbe una soddisfacente carriera lavorativa, nella vita sentimentale non ebbe il medesimo successo: la sua prima grande relazione fu con John Cournos, appartenente alla cerchia degli imagisti, che tuttavia le annunciò di non volersi mai sposare e la lasciò. Scoprì solo più tardi che egli convolò a nozze con una donna, rimanendone fortemente delusa.
La Sayers ebbe sempre un atteggiamento contraddittorio sul sesso, sentendone il fascino irresistibile ma allo stesso tempo respinta da un senso di colpa e di peccato derivato dalla rigida educazione paterna. Fatto sta che ebbe una relazione illecita con il suo vicino di casa (abitazione che tra l’altro aveva una perigliosa scala a chiocciola e che ritroveremo nel romanzo di cui parlerò), William White, che era però sposato. Ebbe malauguratamente un figlio da lui. Insieme alla moglie di Bill, che tentò di salvare il suo matrimonio naufragato, nascose il neonato, cui la scrittrice diede il nome di John Anthony, affidandolo alle cure della cugina Ivy Shrimpton, dicendole fosse figlio di una lontana parente. La Sayers visse sempre con ansia questo lato scabroso della sua vita, tanto che per l’intera sua vita nascose l’esistenza di questo figlio al mondo, non rivelando nemmeno allo stesso John Anthony che lei fosse sua madre. Era dunque una buona bugiarda se riuscì a mantenere il segreto per l’intera sua esistenza.
Poi incontrò Oswald Arthur Fleming, detto Mac, giornalista che si occupava di cronaca nera, con cui si fidanzò. Egli sembrò toglierle un enorme macigno nella coscienza quando accettò di adottare John Anthony, ma continuò sempre a rimandare, non approdando dunque ad un nulla di fatto. Era un uomo difficile, un grande bevitore che non rese facile la vita già tormentata della scrittrice. E così, tra angosce e affanni personali, la Sayers continuò a mostrarsi sempre gaia nell’esteriorità, celando però meandri oscuri nel suo animo. Morì nel 1957.

Lord Peter e l’altro è un romanzo gradevolissimo, dallo stile elegante e ironico, leggero e frizzante, con un buon enigma reso trasparente dall’assenza totale di misdirection.
L’opera mi è piaciuta molto pur non avendo le caratteristiche canoniche di un giallo classico, in quanto presenta spunti originali ed è narrata in modo piacevole, tanto da risultare scorrevole e priva di punti di stanca.

La trama immerge il lettore sin da subito nel caotico mondo della pubblicità: l’agenzia Pym è una rinomata ditta che si occupa di annunci pubblicitari e spot per i più svariati prodotti da lanciare sul mercato, per renderli più appetibili e stuzzicare l’interesse del pubblico, inducendo così al loro acquisto. Negli uffici si nota un certo fermento, i vari impiegati scorrazzano nei corridoi dell’azienda, ognuno alle prese con slogan, loghi vari, vignette esplicative. Nella sala principale, durante una delle innumerevoli pause, dattilografe e redattori spettegolano tranquillamente sui vari eventi avvenuti nella giornata. Un fatto sembra destare la loro attenzione quel giorno: è stato assunto un nuovo redattore al posto di Victor Dean, morto poco tempo prima rompendosi il collo a seguito di una caduta dalle scale a chiocciola dell’agenzia. Un terribile disgrazia che però sembra non aver rattristato molti, dal momento che Dean era un uomo detestabile. Il nuovo arrivato, il signor Bredon, sembra un tipo elegante e raffinato e comincia a riscuotere le simpatie generali dell’ambiente. I vari capiservizio e gli altri colleghi, dal gioviale Ingleby, al simpatico Hankin, dal libertino Tallboy, alle ciarliere segretarie Rossiter e Parton e alla più seria Metayard, si adoperano per spiegare a Bredon tutto ciò che c’è da sapere per riuscire ad “ingannare” la gente con l’abile mezzo della parola. Nel frattempo, però, seguendo da vicino i vari movimenti del nuovo redattore, notiamo che serba un certo interesse per le carte del defunto Dean, frugando più volte suo ufficio che gli è stato nel contempo assegnato. Inoltre approfitta delle frequenti pause per chiedere in giro informazioni sull’incidente, fingendosi solamente curioso. Che sia davvero così? Ovviamente no, in quanto Bredon altri non è che il celebre aristocratico-investigatore Lord Peter Wimsey sotto copertura, assunto dalla sorella della vittima, Patricia Dean, e dal capo dell’azienda, l’integerrimo signor Pym, per scoprire i torbidi che si celano in quell’ambiente che sembra tanto sereno e idillico. Infatti la caduta di Dean sembra essere stata troppo provvidenziale dal momento che egli stava ricattando qualcuno del personale in merito ad una vicenda illecita che si stava svolgendo negli uffici della rispettabile agenzia, come dimostra un appunto del defunto ritrovato tra le sue carte. A chi alludesse però non è chiaro. Sulla natura di questi loschi affari però c’è una traccia: a quanto pare Victor Dean negli ultimi tempi aveva cominciato a frequentare Diana de Momerie, donna dedita agli stupefacenti e legata ad una fitta rete di spacciatori che la polizia londinese non era mai riuscita a sgominare, nonostante assidue e scrupolose indagini. Che il marcio all’interno della Pym sia il traffico di droghe? Sta a Lord Peter cercare di carpire quante più notizie possibili sotto le sue mentite spoglie per fermare una pericolosa banda di criminali ed assicurare alla giustizia un astuto assassino.
Dovrà però investigare a fondo e, attraverso il confronto delle deposizioni, la lettura delle varie testimonianze e l’interpretazione di svariati indizi, tra cui un piccolo monile a forma di scarabeo trovato vicino al corpo di Dean, giungerà a capire come abbia agito il colpevole per uccidere il poco simpatico Dean mentre questi scendeva le scale, senza che nessuno fosse nelle vicinanze.

Lord Peter e l’altro è un romanzo gradevole, brioso e intriso di piacevole humour britannico.
La Sayers, facendo tesoro della sua esperienza personale come redattrice in un’agenzia pubblicitaria, riesce a descrivere in maniera impeccabile quel mondo che è ancora presente nella società odierna e a cui poco spesso si fa caso. L’opera risulta infatti profondamente originale soprattutto nella scelta di questa ambientazione particolare, che le consente sia di ampliare la trama con minuziose e ironiche descrizioni sulla struttura interna di un’azienda di tale genere, sui crucci dei vari redattori alla ricerca di frasi accattivanti e icastiche per soddisfare le richieste di varie ditte, sui pettegolezzi interni tra colleghi e sulle dispute tra i capiservizio e gli impiegati per i ritardi nella consegna degli spot, sia di concentrare i personaggi all’interno di uno spazio ben definito, come vuole la più classica tradizione del mystery britannico.
Quindi lo scenario su cui si svolgono le vicende è anche il perno dell’intera trama, ciò che le dona brio e naturalezza e quasi sovrasta la stessa narrazione gialla, la quale, d’altro canto, è abbastanza debole. Il punto di forza dell’autrice sta di certo nelle descrizioni e nella resa delle personalità dei vari personaggi, conferendo piacevolezza all’intera narrazione e andando a supplire alle mancanze presenti nell’enigma centrale.
La Sayers è stata abilissima nella scelta di tale “scenografia” per il suo romanzo, perché la sua diretta conoscenza del settore, a cui aggiunge altri elementi legati alla sua esperienza personale (come le scale a chiocciola presenti nella sua stessa dimora), ha reso estremamente spontanee e realistiche le dinamiche che delinea nell’opera.

Se l’ambientazione è originale e fresca, altrettanto particolare e gradevole è lo stile della Sayers. La sua scrittura è misurata, elegante ma non troppo, non sfocia nell’eccessiva erudizione, né nella pedanteria accademica. La sua è una penna aggraziata, garbata, piena di ironia sottile. Dipinge i vari personaggi con pochi tratti e approfondisce il loro carattere attraverso poche ma ben descritte scene. Alla fine, senza eccessi esornativi e noiosi ed eccessivi ritratti, la Sayers riesce ad imprimere nella mente del lettore i vari protagonisti, che sono facilmente riconoscibili. D’altra parte non tutte le “dramatis personae” vengono ben delineate, ma ciò è dovuto essenzialmente alla nutrita schiera di impiegati che popolano queste pagine. Vi sono personaggi che spiccano e che ritornano spesso nella narrazione, come la signorina Rossiter, la Parton, Tallboy, il burbero Copley, e altri che compaiono ma hanno ruolo di semplici comparse, per riempire il turbolento e caotico mondo dell’agenzia Pym, come il caposervizio Armstrong o il fotografo Prout.

Per quanto concerne la struttura, la scrittrice alterna scene diverse, con salti spesso netti tra i capitoli, mescolando scene più descrittive, quelle concernenti la Pym, e scene più movimentate e “dure”, quelle che riguardano le indagini di Lord Peter nell’ambiente di de Momerie. Questa unione particolare di elementi classici e moderni è particolarmente efficace e fa sì che il ritmo varii continuamente e non diventi troppo monotono.

Lord Peter e l’altro non è però un classico giallo deduttivo, ma più un piacevole romanzo con inserti polizieschi. Il motivo di ciò è da ricercarsi nella costruzione stessa dell’enigma centrale: la morte di Dean, fulcro del romanzo, appare interessante nei primissimi capitoli, quando Lord Peter raccoglie indizi bizzarri di cui capisce la portata, lasciando noi lettori in trepida attesa parlando per enigmi. Però questa tensione legata alla scoperta del piano criminale si dissolve subito dopo, in quanto la meccanica del delitto viene subito resa nota. Essa è anche ingegnosa, ma il suo repentino disvelamento sottrae quella suspence che è tipica del giallo classico, quel senso di attesa costante scaturito dal mistero che trova il suo momento catartico nell’immancabile finale con spiegazione. Questo nella Sayers non avviene, ma non solo perché il “come” viene subito rivelato, ma anche per il fatto che il colpevole diventa palese sin da metà libro. Insomma, il lettore comincia a comprendere l’esatta sequenza dei fatti molto prima delle ultime pagine e ciò può costituire un elemento di disturbo per molti lettori del genere, che invece desiderano trovare un enigma ben strutturato e ben nascosto. Molti giallofili amano venir sorpresi nel finale, cosa che non accade qui. Questa può essere una delle ragioni per cui la Sayers è tanto odiata quanto amata: è sì un’abile scrittrice, dallo stile gradevole, ma è un’ingenua costruttrice di intrecci gialli. L’uso della misdirection, volta a far rivolgere l’attenzione del lettore altrove, è totalmente assente, sicché l’enigma diviene trasparente e di facile risoluzione anche per chi non è avvezzo al genere.

Dunque Lord Peter e l’altro non si configura come un giallo puro, ma più come un buon romanzo di narrativa, colmo di humour, di eleganza sottile e di grandi inserti descrittivi di un mondo poco rappresentato in letteratura.
Più che un poliziesco, è l’affresco di una società, quella britannica degli anni ’30, riflettendo in particolare sulle dinamiche che regolano la massa: la pubblicità non è altro che il prodotto di una società dedita all’apparenza e a cui non importa la sostanza. Gli spot non sono che vesti ornamentali, abbelliscono gli oggetti, deformando la realtà, edulcolorandola, rendendola più gradevole. Parimenti, la società è più interessata all’essenza che all’essere. Quello che costruisce la Sayers è un quadro di un mondo vacuo, caduco, esteriore. L’ agenzia Pym inventa caratteristiche che i prodotti non hanno, tutto solo per il guadagno, per il denaro. Questo è anche ciò che conduce all’omicidio di Dean, che diventa evento che esemplifica questa visione della realtà.
Paradossalmente però, l’omicidio di Dean, nella sede della pubblicità, viene insabbiato, coperto dall’ondata mediatica perché squarcia quel velo di parvenza e svela altarini da tenere nascosti. È il ritratto di un mondo per cui importante è come si dice di essere e non come si è realmente.
L’apparenza dunque copre la verità e lo stesso concetto base usa il colpevole: si serve dell’agenzia pubblicitaria per tenere celati i suoi loschi affari. Il grido degli spot sovrasta il silenzio dell’essenza, chi più alza il tono vince. Questo è il messaggio che traspare in quest’opera, dalla scarsa trama gialla ma dal potente impatto evocativo.
Come conclude la Sayers, dipingendo con una singola frase la labilità dei meccanismi sociali: “Gridate più forte degli altri, per farvi sentire!”

P.S. questa recensione può essere influenzata dal fatto che l’edizione che ho letto non è integrale. Ciò potrebbe comportare un giudizio alterato rispetto ad un’eventuale lettura dell’opera originale.

(Gabriele Crescenzi)

Stuart Turton — Il diavolo e l’acqua scura (The Devil and the Dark Water, 2020)

A star is born. Dopo Le sette morti di Evelyn Hardcastle che ho recensito qualche mese fa, ero molto curioso di vedere la seconda prova di Turton, e devo dire che ha assolutamente soddisfatto le mie aspettative. Dal punto di vista del mio gusto personale, questo secondo libro l’ho trovato addirittura migliore del primo, pur con l’ovvia difficoltà a paragonare due opere così diverse.
Chi ama i libri e trova un libro che gli è piaciuto particolarmente, non vede l’ora di condividerne le sensazioni con gli altri, ma sempre con la paura di guastare la sorpresa, di svelare troppo. Per questo adesso mi trovo in difficoltà, stretto fra il desiderio di spiegarvi cosa mi è piaciuto e la preoccupazione di permettervi di gustarlo come l’ho gustato io, senza sapere nulla o quasi. Cercherò di fare del mio meglio per conciliare le due esigenze.
Una delle domande che ci si pone quando si incontra un libro di questo genere è la presenza del soprannaturale. Se nel primo romanzo di Turton già dal titolo (chi può morire sette volte?) si esplicitava il non realismo della storia, e viceversa nel giallo classico si sa in partenza che l’enigma non presuppone presenze soprannaturali e tutto è realistico (anche se il vampirismo di Fay Seton, le creature soprannaturali di Talbot come Od o il Wendigo, e ancor piú le streghe di Pale Horse cercano di mettere in dubbio la sanità mentale di chi legge) qui non sappiamo se tutti gli eventi soprannaturali narrati hanno una base razionale oppure no. E questo dubbio costituisce uno dei punti di forza del romanzo, aiutando a tenere sempre alta la tensione, quindi non lo svelo qui. Se proprio non potete resistere a questo dubbio, ve lo dirò in un orecchio.
Questa recensione ha tutti i titoli per stare qui: infatti pur non essendo un giallo classico, e volendo nemmeno un giallo contemporaneo (o per lo meno, non solo un giallo contemporaneo) ha anche degli enigmi e degli indizi che possono guidare il lettore a risolverli. Indizi che compaiono fin dalla prima pagina e che richiedono, per essere colti, una lettura molto attenta. Ma non è solo un giallo, è un romanzo spettacolare per la grandissima atmosfera, per aver introdotto personaggi memorabili caratterizzati in modo superbo, per l’ambientazione marinara e per di più nel sud-est asiatico che per me cresciuto a pane, Sandokan e Yanez, ha risvegliato i ricordi della fanciullezza, per la bellezza della trama (dove sembra non succedere niente e poi di colpo si susseguono colpi di scena a ritmo serratissimo) e per un grandissimo finale, con le ultime cinquanta pagine da leggere in apnea. L’unica piccola pecca che ho trovato (e che per la verità avevo trovato in misura ancora più accentuata anche ne Le sette morti di Evelyn Hardcastle) riguarda una certa lentezza nella parte centrale del romanzo, che viene ampiamente compensata dal bellissimo finale che fa dire “è valsa la pena arrivare fin qui, anche se ho fatto un po’ di fatica”
Per chi vede il giallo come una partita a scacchi fra l’autore e il lettore, e gode nel risolvere l’enigma e si innervosisce se non ci riesce, va detto che stavolta almeno l’enigma principale sono riuscito, con un pizzico di intuito e tanta fortuna, a indovinarlo. Naturalmente non ho capito tutti i dettagli della soluzione, il che sarebbe stato obiettivamente impossibile in una storia come questa.
Per chi invece, come me, vede il giallo più come uno spettacolo di magia, qui il fatto di capire il trucco, che spesso è indice di scarsa qualità o per lo meno di riproposizione di luoghi comuni triti e ritriti, non rovina affatto la bellezza della storia, tutt’altro. Qui è pieno di idee originali, sia dal punto di vista della trama gialla/thriller sia per quanto riguarda i caratteri dei personaggi e i rapporti che intercorrono fra loro.
Se come me amate leggere una storia senza conoscere la trama per timore di farvi condizionare da essa, allora per voi la mia recensione finisce qui. Altrimenti, senza spoiler, vi do qualche indicazione in piú.

La storia è ambientata dapprima nel porto di Batavia (l’attuale Giacarta, oggi capitale dell’Indonesia e ai tempi della nostra storia, nel diciassettesimo secolo, capitale delle Indie olandesi) e poi sulla Saardam, una nave mercantile che salpa proprio da Batavia diretta in patria. A bordo troviamo i due protagonisti, il cardellino e l’orso. Vale a dire un geniale investigatore e un erculeo mercenario che gli fa da guardia del corpo. Samuel Pipps, il cardellino, si trova in catene, e il motivo della sua prigionia verrà spiegato solo molti capitoli dopo. Molti personaggi fra cui il governatore della colonia si imbarcano sulla nave e noi veniamo a conoscenza delle loro storie. Ma già da prima della partenza un misterioso lebbroso aveva lanciato un anatema sulla nave, condannandola a non completare il suo viaggio, un attimo prima di morire in modo misterioso. E l’ombra del male sembra stendersi su di essa: un demone chiamato “il vecchio Tom”, una nave fantasma che segue la Sardaam, la crudele e inspiegabile morte del bestiame a bordo, fino all’altrettanto misteriosa morte di uno dei passeggeri, che peraltro sarà solo la prima di una sequenza di morte, sembrano far avverare la predizione del lebbroso. Poi il romanzo entra nel vivo, e il vecchio Tom mi punirebbe se vi svelassi oltre…

(Alberto Avanzi)

Stanislas-André Steeman — Il patto dei sei (Six hommes morts, 1931)

Quando si parla di giallo classico si pensa immediatamente all’Inghilterra, patria del genere, che ha dato i natali ai più grandi autori di mystery, dalla Christie, a Chesterton, alla Sayers a Berkeley. Altra nazione che ha contribuito enormemente alla diffusione e all’evoluzione del giallo deduttivo sono gli Stati Uniti, rappresentati da giganti come Van Dine, Carr e Queen. Dunque, i maggiori apporti provennero dal mondo anglofilo, mentre meno conosciute sono le opere prodotte nel medesimo periodo in Francia. Scrittori come Vindry, Boileau, Narcejac, Boca e Lanteaume meriterebbero infatti una fama più ampia, in quanto creatori di trame originali e ingegnose, che non hanno nulla da invidiare a quelle dei loro colleghi inglesi e americani. Nel settore del giallo francofono, un piccolo grande apporto è stato dato anche da autori di nazionalità belga. Non si pensi solo al famoso Georges Simenon, autore di numerosi gialli psicologici e noir e creatore dell’immortale commissario Maigret, ma anche a personalità come Stanislas-André Steeman.Stanislas-André Steeman nacque a Liegi, in Belgio, nel 1908. Lavorò come giornalista presso la rivista La Nation belge e nel frattempo si cimentò nella stesura di opere gialle, esordendo con il romanzo Six hommes morts (1931), per il quale riceverà il prestigioso prix du roman d’aventures. Continuerà a comporre romanzi polizieschi, conquistando una certa fama soprattutto con la pubblicazione di L’assassin habite au 21 (1939). Morì nel 1970.Non avendo letto ancora nulla dell’autore ed avendo più volte apprezzato lo stile e le idee generate dai romanzieri francesi, ero incuriosito di scoprire questo autore. Per questo ho deciso di iniziare proprio dalla sua prima opera gialla, Il patto dei sei.

Il patto dei sei (1931) è un romanzo classico, incentrato su un killer che uccide brutalmente sei amici legati da un patto pecuniario. L’opera dimostra ancora una certa acerbità narrativa, pur possedendo innegabili punti di forza, specie nell’idea base su cui si fonda l’intero enigma e nello stile agile e movimentato, in linea con la prosa asciutta e ben poco descrittiva tipica del poliziesco francese.

Il romanzo si apre con l’incontro tra due giovani, il ricco e gioviale Georges Senterre e l’ombroso e smilzo Jean Perlonjour. Sembra che i due amici non si siano visti da 5 anni e cominciano dunque a scambiarsi i soliti convenevoli. A quanto pare, nel tempo trascorso senza vedersi, Senterre è divenuto ricco, mentre il suo compagno è rimasto tremendamente povero. Senterre lo esorta a stabilirsi nel suo appartamento e di non avvilirsi perché lui ha guadagnato “per due, per tre e anche per sei” e accenna ad un accordo che in passato Perlonjour ha giurato di rispettare. Comunque quest’ultimo non vuole sentire ragioni e gli confida che tra pochi giorni ripartirà nel suo giro del mondo in cerca di fortuna. Piano piano si comincia a scoprire a quale patto Senterre si riferisse: 5 anni prima, loro due, insieme ad altri 4 amici, Gernicot, Namotte, Gribbe e Tignol, avevano deciso di punto in bianco che ognuno di loro sarebbe partito l’indomani, la settimana o il mese successivo, lontano dal vecchio Continente per fare fortuna, partendo da zero. Poi, allo scadere del quinto anno, sarebbero tornati in patria e si sarebbero spartiti in parti uguali gli averi accumulati nel frattempo. Bastava dunque che uno dei sei divenisse ricchissimo, per rendere benestanti gli altri. Avevano siglato questo patto e poi ognuno aveva preso la propria strada nel vasto e sconfinato mondo. Sono ora passati i 5 anni pattuiti e Senterre e Perlonjour sono i primi ad essere ritornati, il primo essendo riuscito nell’intento di accumulare una fortuna, il secondo invece povero in canna. Attendono dunque che gli altri compagni si facciano vivi per rispettare la promessa. Una sera però, mentre i due amici tornano a casa da un ristorante di lusso, leggono su un giornale la notizia di un uomo caduto in mare dalla nave “Aquitania”. Si tratta di Namotte, uno dei compagni che doveva tornare per onorare il patto. I due se ne dispiacciono, ma non badano alla cosa: sono eventi che succedono. Sarebbe sembrato un brutto incidente se, qualche giorno dopo, non fosse arrivato un telegramma da parte di Gernicot che li avvisa che sarebbe arrivato l’indomani e che allude al fatto di essere stato sulla nave dove era scomparso Namotte. Georges è contento e mesto allo stesso tempo: pochi giorni prima, infatti, era giunta da lui una donna affascinante, conturbante e irresistibile, di nome Asuncion, la quale dichiarò di essere la fidanzata di Gernicot, che aveva conosciuto due anni prima e che le aveva promesso che, tre anni dopo, l’avrebbe resa una regina. Dal momento che conosceva il patto tra i sei, sapendo dunque che il ritorno dell’amato era imminente, si era messa in contatto con Senterre affinché l’avvisasse quando il suo amato sarebbe ricomparso. Il problema di Georges è che si trova in un limbo di emozioni: è felice di rivedere il suo grande amico, ma allo stesso tempo vorrebbe che non tornasse perché si è invaghito sin dal primo istante della fanciulla. Ma, controvoglia, avvisa la ragazza del telegramma e i due aspettano l’arrivo dell’uomo. Trascorrono le ore, il silenzio tra Senterre e Asuncion sta diventando imbarazzante, quando ecco che arriva Gernicot, con un colorito pallido, gli occhi sgranati e le mani tremanti, come se avesse il diavolo alle calcagna. Il giovane è terrorizzato dal temporale che sta infuriando, ma c’è qualcos’altro che lo tormenta: afferma infatti che tutti loro sarebbero in pericolo, in quanto la morte di Namotte non era stata un incidente ma un omicidio. Gernicot sostiene di aver visto la notte della sua dipartita un uomo con la barba allontanarsi furtivamente dal ponte. Quell’uomo l’avrebbe inseguito anche a Pechino tempo addietro. Egli è convinto che una morte brutale incomba su di loro e che presto quel demone comincerà ad uccidere uno ad uno i suoi amici. Non sa spiegarsene la ragione, ma se lo sente. Intanto si affaccia alla finestra e si ode un colpo di pistola: Gernicot cade a terra ferito. Asuncion e Senterre lo portano sul letto, cercando di curare la ferita, ma il giovane rifiuta di farsi medicare, affermando che il suo destino è segnato. Senterre corre a chiamare il medico mentre Asuncion si occupa del fidanzato. Ma al suo ritorno Asuncion è svenuta sul pavimento con il suo velo stretto intorno al collo e il suo amico ferito è scomparso. Che cosa è successo in quell’appartamento? Le indagini verranno affidate all’elegante e freddo ispettore Wenceslas Vorobeitchik, una sorta di miscuglio tra lord Peter Wimsey e Poirot, che dovrà intuire il piano dietro questi omicidi prima che il killer colpisca ancora. Ma scorrerà altro sangue prima che l’ispettore riesca ad acciuffare il colpevole.

Il patto dei sei è un romanzo che lascia un po’ perplessi, a tratti insoddisfatti, pur contenendo delle idee geniali per l’epoca. Si possono attribuire alcune ingenuità alla poca esperienza dell’autore, dal momento che questa è la sua prima opera.

La struttura del romanzo è tipicamente francese: andamento frenetico e sostenuto, poche scene descrittive, caratterizzazione dei personaggi quasi assente (se non per il “co-protagonista” Senterre, che è quasi una sorta di altro narratore della vicenda, nonostante la focalizzazione sia esterna) e molte scene di azioni adrenaliniche legate all’imminenza di un prossimo omicidio da parte del killer. Dunque è un’opera adatta ad una lettura veloce, che scorre piacevolmente e senza punti di stanca e che poco si concentra sui personaggi, di fatto meri nomi privi di tratti distintivi.

Il lato negativo dell’opera riguarda il meccanismo giallo: la soluzione dell’enigma è prevedibile e nel finale non c’è quel senso di tensione che ti aspetteresti in un romanzo incentrato su un serial killer. Ciò che non mi ha convinto, non è però la soluzione in sé, perché è davvero innovativa e anticipa un aspetto geniale di un grandioso romanzo della Christie, bensì il modo con cui si arriva ad essa. L’autore si dimostra ingenuo nel dipanare gli indizi e il lettore arriva ancor prima dell’ispettore a capire dove si debba cercare la verità. Nonostante Vorobeitchik sia in più occasioni criptico, come è usanza dei detective nel giallo classico, il lettore non rimane disorientato da queste sue elucubrazioni, anzi, comprende all’istante i pensieri del deus ex machina. L’ispettore Wens non fa dunque una bella figura, sebbene sia un personaggio interessante pur se poco abbozzato. Sorprende inoltre che certe indagini non siano state svolte precedentemente, evitando inutili assassinii. Era evidente da un delitto in particolare chi potesse essere il colpevole. C’è anche un delitto impossibile su un ascensore, ma viene risolto subito e in maniera deludente.

Insomma, Il patto dei sei è un’opera piacevole, scorrevole, con la giusta dose di omicidi ma con una soluzione troppo palese, forse anche perché divenuta cliché del genere, ma soprattutto per una certa acerbità nella narrazione e nella costruzione dell’enigma puramente giallo.

(Gabriele Crescenzi)

Rufus King — Delitto in casa Willett (Murder in the Willett Family, 1931)

Torniamo, come promesso, a parlare di libri letti meritevoli e di autori illustri da recuperare. Oggi discorrerò un po’ di una delle tante teste coronate della letteratura, ovvero di Rufus King, autore molto letto durante la Golden Age e oggi, almeno da noi, un po’ finito nel dimenticatoio. Della sua fama all’epoca basti dire che si è sempre vociferato sul fatto che lo pseudonimo “Ellery Queen” potesse in qualche modo essere stato coniato sul cognome del nostro scrittore, celebre in particolare per due serie: quella col detective Reginald de Puyster e la seconda col tenente Valcour, protagonista dell’opera che prenderò brevemente in esame Delitto in casa Willett, apparso nel 1931 negli States e tradotto da noi nel 1975. Il romanzo si apre con un discorso tra due vecchi amici (ed ex innamorati, come tra le righe si evincerà) la ricca e raffinata signora Kate Willett e il capo della polizia di New York. Tra un ricordo e l’altro della loro adolescenza, la raffinata vedova del bislacco Allenby Mortimer Willett, ormai sessantenne, espone al poliziotto la propria apprensione dovuta alla ricezione di un paio di lettere anonime richiedenti un congruo riscatto per evitare il sequestro, o peggio, dei suoi due figli più giovani, Arthur e Henry. Il capo della polizia prende a cuore la questione e incarica il tenente Valcour di seguire in vacanza tra i monti Adirondack, in una delle tante case di vacanze, la bizzarra famiglia della sua vecchia amica, composta oltre che dai due figli di 18 e 19 anni anche da Jess, avuto da una relazione precedente (accompagnato dalla sua neo-sposa Linda, dal nipote Larry Stone, dall’ambiguo tutore dei due ragazzi Wilbur Strange e dal maggiordomo Slade. In un clima di forte tensione, dovuto soprattutto alle rapide pennellate che evidenziano lo stato di forte disagio mentale dei due adolescenti, il clima nell’abitazione si fa sempre più teso, finché una notte (dopo la ricezione di un altro messaggio minatorio con la lapidaria scritta “Presto”), mentre si trova a discutere davanti al caminetto in compagnia dell’investigatore, uno dei due scapestrati viene ritrovato senza vita, ucciso come si scoprirà da un colpo di fucile di piccolo calibro, occultato dallo scoppiettio dei ceppi. Durante la successiva inchiesta si verrà a conoscenza del fatto che tale fucile, rinvenuto nel giardino, era stato preso il giorno prima dalla giovane sposa, per finalità che si rifiuta di dichiarare, e poi scomparso. Si dipana da qui una trama tutta incentrata sulle sottigliezze psicologiche, in un continuo, spasmodico cambio di abitazione, metodo con il quale la signora Kate reputa di poter tenere a bada il comportamento sempre più borderline del figlio rimasto, tra sparizioni di denaro all’interno della casa, il suicidio del maggiordomo (che aveva già informato la polizia di essere al corrente di informazioni rilevanti sul caso) al rientro della famiglia a New York e altri delitti che circoscrivono sempre più la lista degli indagati. Un dramma familiare in piena regola, con forti venature da tragedia greca e una massiccia iniezione di suspense dovuta sia alla particolare brevità di ogni capitolo (se ne contano ben 37 in neanche 140 pagine dell’edizione mondadoriana) che alla tecnica dell’autore, fittissima di prolessi. Più volte infatti, al termine di un segmento narrativo, come nulla fosse, o all’inizio di un nuovo paragrafo, ci viene anticipata la morte di uno dei protagonisti, come nulla fosse, per poi magari occultarla per una ventina di pagine tra una figuraccia pubblica e l’altra dovuta all’impossibile contenimento del carattere sempre più megalomane e psicotico del figlio rimasto, e alla ricaduta psicologica sull’intera famiglia dei suoi comportamenti violenti o possessivo-infantili. Questa notevole alternanza di suspense e raffinata sensibilità psicologica è l’elemento più rilevante dell’intera vicenda, al quale bisognerebbe aggiungere (come era emerso nel precedente e forse più celebre romanzo di King, Il dramma del Florida, apparso in originale nel medesimo anno) l’importanza rivestita dall’ambiguità sessuale, sottotrama sovente presente nei romanzi di questo autore e che si evidenzia non per amore della morbosità ma come tratto caratteristico della sua scrittura. L’aconito la farà da padrone negli ultimi omicidi di questa fosca vicenda, dove la struttura gialla classica si intreccia alla decadenza di una ricca famiglia e l’eccellente resa della variegata e difforme psicologia di molti dei protagonisti aggiunge un surplus di raffinatezza all’abilità di un autore purtroppo oggi poco celebrato ma assolutamente memorabile e meritevole di riproposizione e di analisi ben più dettagliate di quella sommariamente abbozzata qui.

(Dionigi Lo Narra)

Philip MacDonald — Campana a morto (The Rasp, 1924)

Come promesso, vengo a cianciare del romanzo testé terminato, “Campana a morto” di Philip MacDonald (il cui titolo originale è The Rasp (1924) e per nordici un po’ maliziosetti non c’è bisogno di indicare perché fosse opportuno re-intitolarlo). In realtà la scelta del titolo da parte del giovane autore (aveva 24 anni all’epoca, è la sua opera d’esordio) era giustificata dal fatto che l’attrezzo, nonché arma con la quale viene selvaggiamente ucciso all’interno del suo studio nella sua villa privata un ministro del gabinetto inglese, gioca un ruolo importante nel romanzo: vuoi per l’eccentricità dello stesso, che per l’improbabilità di trovarla sopra una scrivania, da cui la necessaria premeditazione. Informato nel cuore della notte di un delitto che potrebbe creare scompiglio ai piani alti della politica inglese del primo dopoguerra (il romanzo è ambientato all’inizio degli anni Venti) il direttore della sferzante rivista “Il Gufo” decide di chiedere aiuto a una sua vecchia conoscenza, il colonnello in congedo Anthony Ruthven Gethryn, ex agente dei servizi segreti britannici durante il primo conflitto mondiale, scrittore, pittore e scapolo flaneur per scelta di vita. Costui accetta subito di indagare privatamente, per vincere la propria monotonia e aiutare l’amico direttore, e sulle note della celebre filastrocca Who Killed Cock Robin? (capolavoro macabro per eccellenza, molto amato anche da altri celebri giallisti britannici e registi thrilling italiani; chi non conosce le strofe d’esordio: “Chi ha ucciso il pettirosso? Io, ha detto il passero, Con il mio arco ed una freccia, Io ho ucciso il pettirosso. Chi lo ha visto morire? Io, ha detto la mosca, Con i miei piccoli occhi, Io l’ho visto morire”) che fischietta incessantemente, si trasferisce nella dimora di campagna e principia acutamente a guardarsi in giro. All’interno della magione è presente un nucleo ristrettissimo di quattro personaggi più la consueta servitù, tra i quali un povero maggiordomo mezzo sordo carico di anni, reumatismi e raffreddore da fieno che avrebbe potuto tener d’occhio la scena del crimine cruento ma non ha sentito nulla nonostante l’efferatezza del crimine e la stanza apparentemente a soqquadro. Il ritrovamento dell’arma del delitto con impresse le impronte digitali del segretario del ministro e altri indizi stringono vieppiù il cappio intorno al collo di costui, e per il nostro colonnello-indagatore, certo in maniera profonda e irrazionale della sua non colpevolezza, parte una lotta contro il tempo per cercare di scagionarlo, sempre ammesso che la sua intuizione originale sia giusta. La stanza è una simil camera-chiusa, presidiata da una adiacente con le porte aperte dal maggiordomo, ma con finestra aperta e aiuola sottostante intatta. La pendola caduta durante la lotta segna un orario con le lancette, contraddetto però dal tocco preimpostato dell’ora e non si spiega lo sconquasso, la ferocia dell’omicidio, tracce esterne di passaggio femminile intuite dall’abile Gethryn, un ex segretario che aveva giurato vendetta e maliarde ballerine russe con le quali il politico intratteneva corrispondenze esplosive. Sospendo qui la trama come è giusto che sia e passo ad altre rapide osservazioni. Innanzitutto sottolineo come questo romanzo sia stato inserito dall’amato J.D. Carr tra i suoi dieci gialli preferiti di tutti i tempi (successivamente la scelta venne cambiata e al suo posto inserì, sempre del medesimo autore, La morte è impazzita) e onestamente la scelta iniziale mi lascia un poco perplesso. Il romanzo è sì un ottimo concentrato di elementi classici, scritto in maniera arguta e soave, fortemente ironica e con i colpi di scena ben ritmati, ma personalmente non regge il paragone con quello successivamente prescelto (forse il miglior romanzo con serial killer che ricordi) ma neppure con Ignoto contro ignoto o I nove volti dell’assassino sempre di MacDonald. Una delle caratteristiche dell’autore è quella di giocare in pieno fair play in questa sua opera prima, quindi ogni indizio è ben sottolineato e proposto ai lettori fin dal momento in cui il protagonista lo coglie e devo dire che non ci vuole una particolare arguzia, almeno da metà romanzo, per intuire come siano andate le cose, anche dopo il ritrovamento di altri oggetti significativi e la voluta separazione della raspa dalla sua impugnatura. Aggiungerei inoltre che pure il metodo escogitato dal colonnello per far confessare l’autore, l’autrice o gli autori del delitto… sa un po’ di Signora in Giallo, teatrale e istrionico come si presenta. Il posto dell’abituale riunione con tutti i sospettati prima dello svelamento del colpevole è preso da una lunga relazione scritta dall’investigatore dilettante, inserita subito dopo la scena del climax, che riassume e spiega con minuzia di particolari tutti i vari indizi e i passaggi logici seguiti, lasciando però in sospeso se il trucchetto per far crollare il/la/i supposto(a/i) omicida (i) abbia avuto buon esito. Il lettore che ha già seguito l’avvenimento ovviamente sa già ogni cosa ma questo lungo inserto (oltre 20 pp. in un romanzo di 166 nell’impaginato dei Gialli) risulta un pochino legnoso, visto che l’ampio spazio ancora a disposizione dell’autore al momento dell’arresto poteva lasciar intendere che ci sarebbero state ulteriori sorprese (che non è detto non ci siano). Tutto questo se, a mio pignolo e soggettivo giudizio, non renderebbe meritevole il romanzo in questione di rientrare in un ristrettissimo novero di capolavori, non impedisce però di poterlo considerare un’eccellente opera prima che non annoia mai, estremamente fresca nel linguaggio (ma la traduzione italiana è tarda, della metà anni settanta, sebbene il romanzo fosse già stato edito in precedenza col titolo Delitto ad Abbotshall e anche questo ha ovviamente la sua importanza) con un simpatico protagonista facilmente distraibile da beltà femminili quanto inflessibile nella ricerca della verità, ottimi personaggi di contorno, una ben dosata componente romantica e genuini brividi dovuti all’improvvisa alternanza delle strofe della macabra filastrocca con i particolari reali del brutale delitto. Non mi risulta sia stato successivamente riedito ed è un vero peccato perché, come gli altri romanzi sopra citati dello stesso autore (e probabilmente anche i molti inediti) si tratta veramente di un gioiello della Golden Age, seppure non luminoso come le Stelle Volanti o la Stella d’Occidente ma pur sempre rifulgente. Perdonate le lungaggini e grazie e buona salute e letture se avete retto fin qui (e naturalmente anche se non aveste retto)!

(Dionigi Lo Narra)

Jim Kelly — Trappola bianca (Death Wore White, 2008)

Non c’è niente di meglio da leggere nel freddo clima novembrino che un bel giallo con una trama “immersa” nella neve. Se poi promette un delitto impossibile, ancora meglio. Per questo ho atteso questo periodo per leggere Trappola bianca di Jim Kelly.

Jim Kelly è un autore britannico contemporaneo di gialli, nato nell’ Hertfordshire nel 1957. Ha iniziato a scrivere gialli dal 2003, ma solo nel 2008, iniziando una nuova serie di romanzi con protagonista Peter Shaw, ispettore della polizia del West Norfolk, diverrà conosciuto e noto in tale ambito, vincendo il New Angle prize for literature nel 2010 con il romanzo Death Watch.

Trappola bianca è il primo romanzo della serie di Peter Shaw, carismatico investigatore della polizia del West Norfolk.
Il romanzo mescola in modo accattivante il giallo classico-deduttivo e il procedural, con descrizione minuziosa ma non tediosa delle varie tecniche di indagine.

Le vicende della trama si avviano nel 2008, quando Peter Shaw, nuovo ispettore nel corpo di polizia del West Norfolk, assieme a George Valentine, ex ispettore declassato per errori in un caso passato e ora assistente del primo, si trova a Ingol Beach per controllare la zona, dove sono stati avvistati barili contenente materiale tossico. Mentre perlustrano le vicinanze, trovano uno di questi bidoni e chiamano la centrale per rinforzi. Intanto nevica abbondantemente, il clima diventa rigido. Nel frattempo a Siberia Belt, una strada costiera a pochi km da dove si trovano i due poliziotti, c’è un convoglio di auto bloccate da un albero caduto che blocca il passaggio. La neve inoltre, ormai diminuita a pochi e leggeri fiocchi, rende la situazione ancora peggiore, perché impedisce alle auto di fare retromarcia ed uscirsene da dove erano giunte. Tra i conducenti bloccati in quel caos di gelo e gas di scarico, vi è Sarah Baker-Sibley. La donna è irrequieta, sembra aver fretta per qualcosa di urgente. Per cosa, non ci è dato sapere. L’autore si sofferma poi nei primi capitoli nel descrivere brevemente i personaggi di quello strano gruppo, dandoci come dei piccoli flash, che consentono di comprendere le loro vite e le loro personalità. Intanto un vecchio esce sulla strada e snocciola le solite frasi di circostanza alla donna, che è seccata e lo fa intendere. L’uomo si reca dunque verso il veicolo in testa per vedere cosa si può fare, parla col proprietario e torna indietro.
Nel contempo Peter Shaw e George Valentine attendono i rinforzi, ma non se ne stanno certo ad oziare, in quanto scorgono nelle vicinanze un canotto. Incuriosito, Shaw vi si avvicina scoprendo all’interno il cadavere di un uomo. Chi è costui? E cosa ci fa dentro quel canotto da bambini? Ma non sarà l’unico enigma che dovrà risolvere quel giorno: arrivati i rinforzi e trasportato via il cadavere per ulteriori controlli, Shaw decide di vedere cosa stia accadendo in quella strada intasata, cercando di sistemare la situazione. Pensava di dover sbloccare la circolazione delle auto, non certo di imbattersi in un altro cadavere: infatti l’uomo nella macchina in testa si trova sul posto del conducente con uno scalpello conficcato nell’orbita oculare ed è morto da tempo. Ma non è l’unico problema: nelle vicinanze della macchina non vi sono impronte sulla neve, se non quelle del vecchio che ha parlato con lui in precedenza e che, stando alla testimonianza della Baker-Sibley, non si è mai sporto dal finestrino. Allora come ha fatto l’assassino ad ucciderlo senza lasciare impronte? Non può neanche intervistare l’anziano signore, John Bickling Holt, in quanto ha avuto un attacco di cuore e deve essere immediatamente portato all’ospedale. Altri strani fatti sembrano essere accaduti in quella zona: la vittima sembra non essere morta nell’abitacolo ma altrove; uno degli autisti scappa alla vista della polizia e si porta dietro uno strano copri-volante in pelle di serpente. Insomma, c’è molto da scoprire e Shaw, con la collaborazione di Valentine, dovrà lavorar sodo per distinguere la verità dalle bugie nelle testimonianze di sospetti che sembrano ben poco propensi a parlare. Lentamente cominciano ad emergere nuovi dettagli, relazioni insospettate e moventi nascosti e ci saranno altre morti prima che Shaw possa dichiarare che il caso sia chiuso. E dovrà affrontare anche i demoni del passato…

Trappola bianca è un bel romanzo giallo, molto gradevole e con uno stile particolare. Jim Kelly costruisce una buona trama ambientata mondo contemporaneo, fornendo un’accurata descrizione delle dinamiche interne della polizia senza scadere in eccessivi tecnicismi, finendo per rendere l’opera pesante e noiosa. L’indagine secondo metodi rigorosi non esaurisce però la narrazione, che si fonda in gran parte sul lavoro deduttivo dei due protagonisti, costretti anche per l’eccezionalità degli eventi ad interrogarsi sulla meccanica dei crimini. Deduzione, indagini, perquisizioni e conoscenza della psicologia umana sono gli elementi fondamentali che Shaw utilizza per venire a capo di questi molteplici enigmi e per cercare di collegare insieme eventi che sembrano sconnessi, pur se concentrati nella stessa zona e avvenuti nell’arco di uno stesso periodo.

Lo stile dell’autore è scorrevole, sebbene in alcuni casi un po’ farraginoso: le pagine iniziali sono un po’ confusionarie, sia per l’enorme numero di personaggi, sia per l’esiguità di spazio a loro dedicato. Con lo scorrere delle pagine le varie personalità diverranno più chiare e distinguibili, ma si poteva evitare il caos iniziale. Questo ritmo, lento all’avvio, è dovuto anche alla tecnica della narrazione parallela e dalla focalizzazione corale: l’autore narra, alternandoli, due fatti che accadono contemporaneamente in due zone distinte, il rinvenimento del cadavere sulla spiaggia e l’ingorgo a Siberia Belt, e lo fa utilizzando i punti di vista di diversi personaggi che, sì consentono di immedesimarci meglio, ma dato il breve spazio a loro disposizione, finiscono per disorientare il lettore. Questo scoglio però viene superato nel corso della vicenda, quando gli eventi cominceranno ad assumere una piega più precisa e i vari pezzi del puzzle inizieranno a comporsi in un’immagine più nitida.

L’atmosfera dell’opera è buona, con un ottimo uso della suspence, della tensione data da nuovi dettagli che via via emergono e che sembrano complicare ulteriormente la faccenda. Molto gradevoli le dinamiche tra i due investigatori e il rapporto burbero ma affezionato che instaurano tra di loro. L’opera risulta piacevole anche nella descrizione delle dinamiche personali all’interno del corpo di polizia, con focus anche sugli aspetti umani di ogni agente. Seguiamo infatti anche vicende personali di Shaw, che ci appare fallace, pur se intelligente, a differenza degli investigatori infallibili tradizionali. I personaggi poi vengono tutti ben delineati e sono credibili e ben inseriti in un contesto odierno.

Per quanto riguarda l’enigma, la concatenazione degli eventi è molto ingegnosa, la dinamica dei delitti interessante e originale. In particolare ottima è la soluzione del delitto impossibile su neve, scaturito da una serie di circostanze davvero molto peculiari. Jim Kelly è riuscito a creare un plot forte e originale nell’età contemporanea, impresa che non è da tutti. L’opera non può tuttavia definirsi come un giallo classico perché gli indizi son pochi e la verità balza fuori essenzialmente a seguito dei risultati delle analisi forensi, i quali vengono esposti al lettore nel momento stesso in cui Shaw deduce la dinamica dei fatti. Il disvelamento spettacolare finale è assente, sebbene vi siano una serie di plot twist e interessanti cliff-hanger che tengono alta la tensione: la scoperta del colpevole e del suo piano criminale avvengono gradualmente, i tasselli si compongono nel corso delle pagine. Per cui, arrivati a poche pagine dall’epilogo, molti fatti hanno già trovato una loro risoluzione, mentre ne restano altri da interpretare nel modo corretto. Per quanto riguarda la scelta del colpevole, devo dire che mi ha stupito, in quanto ha usato una tecnica particolare che non mi sarei aspettato da un autore moderno.

Dunque, Trappola bianca è un ottimo romanzo giallo, che mescola insieme elementi classici con altri più moderni, creando una trama salda e un piacevolissimo delitto impossibile.

(Gabriele Crescenzi)

Riflessioni su Jeff Jacks

Jeff Jacks è una delle più misteriose figure emerse dal variegato panorama della narrativa gialla degli ultimi decenni.
Per molto tempo, si è pensato che questa firma fosse uno pseudonimo di Lawrence Block, poi il diretto interessato ha smentito. Così come ha smentito anche un altro autore successivamente chiamato in causa, Robert J. Randisi.
Su un forum aperto qualche anno fa al riguardo nel sito The thrilling detective web, sono arrivate alcune testimonianze di persone che avrebbero conosciuto il vero Jeff Jacks. Sarebbe stato un barista del Greenwich Village con l’hobby della scrittura, sposato a una cameriera. Si sarebbe poi trasferito in California per seguire la moglie, che aveva trovato un lavoro migliore, non avrebbe più scritto nulla e sarebbe morto intorno al 2010.
I suoi unici due libri pubblicati, per fortuna, sono arrivati anche in Italiano, grazie ai mai abbastanza lodati (e rimpianti) Gialli Rizzoli.
Quartiere selvaggio è del 1971, Con l’aiuto della CIA è del 1973 (in Italia, sono usciti tra il 1975 e il 1976).
Protagonista di entrambi è il losco investigatore Shep Stone, un ex poliziotto newyorkese cacciato per corruzione, che frequenta rigorosamente bassifondi e indaga senza licenza.
Un dettaglio significativo è che i due romanzi hanno strutture diversissime: il primo è spezzettato in moltissimi capitoletti, sempre introdotti da un breve ed enigmatico titolo; il secondo è composto da soli 4 macrocapitoli, ovviamente suddivisi in paragrafi.
Dal primo dei due libri è stato tratto anche un film, pure questo giunto in Italia, Con tanti cari… cadaveri, detective Stone (1974). Da notare che appartiene al genere “Blacksploitation”: in altri termini, visto il tipo di personaggio e gli ambienti che frequenta, i produttori decisero di trasformare Shep Stone da un bianco (come è nei romanzi) a un nero!

(Roberto Cocchis)